di Douglas Mortimer
Pubblichiamo una lettera scritta per La voce delle lotte da un operaio di FiatChrysler di Pomigliano d’Arco a Napoli, che descrive i livelli di ricatto nelle fabbriche degli Elkaan e gli aspetti psicologici dei lavoratori costretti a seguire la catena di montaggio. Per evitare una rappresaglia padronale terremo segreta la sua identità.
Mi alzo alle cinque. Tra un’ora parte la linea. Tempo di fare colazione, una rinfrescata e sono in fabbrica.
Un buongiorno veloce ai colleghi e la catena parte: 120 e passa vetture. Devo stare attento a non sbagliare nulla se no creo problemi ai colleghi e il direttore è lì pronto al richiamarci in caso contrario.
Girano voci di esuberi strutturali e se sbaglio potrei essere tra quelli o se non sono fra quelli potrei essere obbligato ad andare a Cassino. La cosa sarebbe peggio. 120 e passa vetture e la linea si fermerà. In quei dieci minuti di sosta spero di non aver bisogno di andare in bagno, se no non potrò gustarmi con piacere una sigaretta.
Nei seicento secondi di sosta che mi spettano ci sono molti colleghi che continuano a lavorare. Forse sbaglierò a fermarmi, sarò visto come un lavativo dai pezzi grossi che bazzicano fra i reparti, ma proprio non ce la faccio.
Alle otto e dieci devo stare sulla mia postazione di lavoro. Noi siamo quello che facciamo.. Altre vetture, 120 e passa. Guasto tecnico. Meno male! Posso prendere fiato. Giusto il tempo di sgranchirmi le ossa. Proseguo. Devo mettere a posto la postazione. Il WCM prevede che la mia postazione di lavoro sia più in ordine della mia casa. Speriamo che sia abbastanza breve la sosta forzata se no sarò costretto a rinunciare alla pausa mensa a fine turno.
Un quarto d’ora: la linea è ripartita!
Abbiamo fatto 16 vetture in meno, molto probabilmente non pranzerò- Quando producevamo le Alfa Romeo eravamo più operai e 100 vetture a turno in meno, il sabato restavo a casa. Me ne strafotto del riposo compensativo della prossima settimana. Sei giorni continui in catena di montaggio ti sfiancano. Tra cinque anni sarò un quarantenne. Non è come dieci anni fa, ma vivo di questo.
Arriva il team leader per avvisarci che nei prossimi dieci minuti di sosta tireranno cinque vetture, tasta il terreno per vedere chi è disponibile a restare, molti miei colleghi anche di altre linee solitamente lavorano anche nei dieci minuti di sosta, io dico di non voler restare, perché ho le mie esigenze fisiologiche, lui mi fa un’alzata di spalle molto seccata. Intanto si arriva alla seconda sosta. Usciamo fuori io e quattro miei colleghi, gli altri che restano a lavorare ci guardano con aria sbalordita. Stiamo solo fermandoci per riprendere un po’ il fiato, neanche fosse uno sciopero.
Una fila per il bagno; una fila per un caffè; mezza sigaretta buttata, perché non riesco a finirla prima del rientro.
Riprendo a lavorare e gira la voce che la mezz’ora di mensa servirà a recuperare le vetture perse in precedenza.
Penso che questa situazione è diventata insostenibile. Lo pensano i miei colleghi, tutti si lamentano, ma nessuno agisce. I sindacati firmatari sono i complici compiacenti delle decisioni aziendali, tutti li accusano, pochi strappano le tessere, qualcuno ha fatto la tessera con la Fiom, che è l’unico sindacato in rotta con l’azienda, lo farei anch’io, ma ho paura. Ho il mutuo da pagare, mia moglie non lavora sempre e i bimbi crescono assieme alle spese. Spesso penso che con questi ritmi e questo clima di oppressione psicologica ci lascerò le penne. E’ già capitato a qualche collega. Lavorare con l’ansia addosso non fa bene alla salute.
Altre 120, o forse qualcuna in più di vetture, la linea si ferma e siamo in otto a riposarci, fumo due sigarette una dietro l’altra. La linea riparte: l’ultima ora e mezza, anzi due ore.
Sono digiuno da stamattina, cominciano i capogiri dovuti alla fame, prima della cassa integrazione la mensa era alle undici, quella mezz’ora serviva oltre a rifocillarci anche a fermarci un po’ di più e ad affrontare le ultime fatiche con più forza, ma qualcuno ha deciso che non doveva essere così. “A Melfi si fa la pausa mensa a fine turno da una vita, ci riescono i colleghi lucani, ci possiamo riuscire anche noi” ci dicono. Una volta ci chiamavamo Alfa Romeo, Alfasud, ora siamo FCA. Il mondo e i mercati sono cambiati.
Una volta questa fabbrica dava lavoro a oltre 15 mila persone, ora siamo circa il 30 per cento di quella forza lavoro, e molti colleghi lavorano pochi giorni al mese, perché la Panda da sola non riesce a saturare l’intero impianto. Senza contare che sono più i capannoni vuoti e abbandonati che quelli attivi.
Finita. Finalmente sono nel parcheggio. Ho comprato uno snack vicino al distributore per alleviare il senso di fame. Mentre avvio la macchina una sensazione strana mi assale: sono appena arrivato a mercoledì, mancano tre giorni alla fine della settimana lavorativa, la prossima sarà corta ma di pomeriggio, salvo sorprese. Salvo che non venga chiamato dalla direzione aziendale per andare a Cassino.
Noi siamo quello che facciamo.
Fonte: lavocedellelotte.it
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