Un «partito della nazione» lo aveva abbozzato, in un certo senso, già Ciampi al tempo della sua presidenza. Alla base di una tale costruzione, descritta come «patriottismo repubblicano», c’erano molto Risorgimento e, in dosi minori, un po’ di Resistenza, resa però il più possibile apartitica, così come già era stato sterilizzato – da una lunga tradizione parascientifica – il Risorgimento, impastato in un’unica “polpetta”, e trasformato in moto corale armonico e univoco (l’esatto contrario di ciò che era stato nella realtà).
Ma il progetto naufragò, perché non era facile replicare sulla Resistenza la stessa operazione. La vicenda della guerra civile italiana, nel corso della quale si era sviluppato il movimento di liberazione, non poteva essere sterilizzata agevolmente. Bisognava rimuoverne la componente comunista, innegabilmente maggioritaria. Con schietto entusiasmo, uno studioso italiano che appare oggi incerto sull’orientamento da adottare, parlò – in un saggio dell’ormai lontano 1976 – di «epopea» comunista nella Resistenza italiana (ed europea). Né era facile, sol perché nell’89-’91 era crollato il “socialismo reale”, far svanire nel nulla tale epopea, così determinante per la vittoria del côté antifascista nella guerra civile italiana. Per altro verso il crollo del “socialismo reale” incoraggiava la sub-storiografia alla Montanelli-Pansa, intenta a fare della Resistenza, con un notevole successo editoriale, un bersaglio costante ed un costante oggetto di discredito.
In conseguenza di ciò, più che sterilizzarla, si provvide ad espungere la Resistenza dal codice genetico di un possibile “partito della nazione”: tanto più che, nel frattempo, il centro-destra, insediatosi saldamente al potere, grazie alle infami leggi elettorali di tipo maggioritario, provvedeva a ricollocare in una luce positiva larghe fette dell’esperienza fascista. E il fascismo come tale riprendeva comunque quota – nella frastornata coscienza diffusa – per il fatto stesso di essere stato l’antagonista più coerente del comunismo, che ideologi colti e meno colti si affannavano, per intanto, a descrivere come il vero male assoluto del secolo.
A questo punto il basamento ideale di un auspicato “partito della nazione” («patriottismo repubblicano» già diventava qualcosa di troppo sbilanciato a sinistra) si riduceva quasi a nulla. Oltretutto, nel frattempo, anche il Risorgimento veniva preso a spallate e fatto oggetto di scherno da parte del pilastro politico che ha consentito, per anni e anni, al centro-destra di governare, e cioè la Lega Nord; il cui leader carismatico incitava, in pubblici comizi, ad adoperare la bandiera nazionale come risorsa d’emergenza per l’igiene intima.
Venuti meno entrambi gli ingredienti, la destra non leghista si appagava della genericissima qualifica di “liberale” e il centro-sinistra adottava come propria qualifica fondante “l’Europa” (assunta quasi come un valore in sé!). E poiché sia gli uni che gli altri pretendevano a spada tratta di non essere né liberali né anti-europei, ne scaturiva che una qualche significativa e qualificante distinzione tra i due gruppi cominciava a diventare problematica (fatta eccezione, beninteso, per il diverso modo degli uni e degli altri di impiegare il tempo libero e soprattutto le serate).
[1] E. Galli della Loggia, Ideologie, classi e costume, in L’Italia contemporanea. 1945-1975, a cura di V. Castronovo, Einaudi, Torino 1976, p. 391.
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