1. Mezzi fascisti e falsi antifascisti
In Francia è andata come doveva andare, secondo i pronostici e soprattutto secondo la logica. La trappola dell’antifascismo in assenza di fascismo è scattata alla perfezione e, anche se non è stata questa la causa principale della vittoria di Macron, è comunque il caso di parlarne, non foss’altro per le castronerie che si sono udite, al proposito, anche da questa parte delle Alpi.
Va ricordato, prima di tutto, che l’europeismo padronale di cui Macron è al momento l’eroe riconosciuto, ha da tempo messo in atto con efficacia una precisa strategia di dissoluzione de iure e de facto delle Costituzioni antifasciste, lavoriste e semi-socialiste che vigevano prima della sublime invenzione della “governance multilivello” dell’Ue. Tale europeismo ha consapevolmente dissolto la sostanza e la forma della democrazia parlamentare sia togliendo potere ai parlamenti nazionali sia traslando questo potere ad organismi non-parlamentari posti scientemente “al riparo dal processo elettorale”. Ha usato ed usa volutamente, come efficace sostituto del terrore politico, la sottooccupazione, la spirale del debito, l’assalto speculativo in risposta alle decisioni politiche sgradite, in una parola il terrore economico. Che gli autori di questo coacervo di politiche antidemocratiche possano essere visti come antagonisti del fascismo è cosa che la dice lunga sulla presunta “cultura” dell’elettore “colto” che più di altri ha fatto proprio l’appello all’Union Sacrée: e non perché, come pure con qualche ragione si dice, questo “antifascismo” non potrà che aprire le porte al fascismo vero, ma piuttosto perché questo “antifascismo” è, oggi, il miglior sostituto funzionale del fascismo stesso, in quanto dissolve l’autonomia delle classi lavoratrici, pone lo stato sotto il comando del grande capitale, sottomette l’intera società ad una discipline ferrea, e lo fa ricorrendo non al manganello ma soprattutto a quella che Marx chiamava la “silenziosa coazione dei rapporti economici”. Che poi tanto silenziosa non è, dato il frastuono mediatico che sempre l’accompagna, ma senz’altro non è l’esercizio di una visibile violenza politica. Ed oltre ad imporre sotto il manto delle esigenze di mercato quegli interessi di classe che il fascismo impose sotto il manto del nazionalismo, l’”antifascismo” europeista (in particolare quello francese) esercita la stessa violenza imperialista del fascismo storico, gabellandola per missione umanitaria ed universalista. E’ proprio il caso di “far fronte” con gente del genere? E contro chi, poi?
E infatti: se questo è l’antifascismo, il fascismo dov’è? Semplicemente non c’è: potrebbe esserci domani o dopo, ma al momento non c’è, e riconoscere questa semplice verità non significa abbassare le armi, ma difendersi con maggior efficacia da un ricatto frontista che, altrimenti, sarebbe sempre vincente, giacché tutto è sempre meglio del fascismo. Il Front National, la Lega e partiti consimili non sono partiti fascisti perché ad essi per ora manca: 1) una milizia attiva, espressione di corpose dinamiche sociali (di tipo, per intenderci, “combattentistico”) strategicamente orientata alla distruzione delle organizzazioni dei lavoratori; 2) un deciso progetto di eversione delle strutture istituzionali e politiche della democrazia; 3) rapporti stretti e preferenziali con gli alti vertici degli apparati di stato in funzione del suddetto progetto e, soprattutto, 4) l’appoggio aperto della frazione dominante del capitale, ossia l’elemento che realmente diede il via libera a Mussolini e ad Hitler. E se domani un tale appoggio dovesse venire servirebbe probabilmente più a smussare il protezionismo dei “fascisti” che a limitare il globalismo dei padroni. Quanto sopra non vuole però legittimare l’idea, che pure ogni tanto viene sostenuta o accennata, che in fondo Le Pen e Salvini sono “un po’ di sinistra”, o comunque “più di sinistra” dei vari Renzi, D’Alema, Bersani e via elencando. Chi in un modo chi nell’altro, tutti sembriamo dimenticare o non aver mai compreso che cosa è veramente un partito o movimento di destra protezionista e autoritaria (abbia esso tratti pienamente fascisti o meno). Si tratta dell’organismo politico della frazione più debole del capitale, una frazione che ha come unica garanzia di sopravvivenza una più piena condivisione del potere di stato (e, in certi casi, il monopolio di quel potere) e che per raggiungere questo scopo è disposta a far proprie, strumentalmente, tutte le possibili parole d’ordine, anche perché deve assolutamente tentare di conquistare un numero rilevante di elettori popolari inserendo nel proprio programma provvedimenti di protezione del lavoro e della piccola impresa familiare. Per questo ha poco senso “spulciare” il programma di queste forze e soppesarne gli elementi di sinistra e quelli di destra. Bisogna piuttosto chiedersi quali interessi stanno dietro a queste forze (quale ne è la base sociale prima ancora della base di consenso di massa) e contro chi esse si scagliano. Se dietro queste forze c’è il capitale protezionista e se esse si scagliano genericamente contro le banche e gli speculatori, ma poi soprattutto contro una parte dei lavoratori, si tratta puramente e semplicemente di forze di destra. E qui bisogna sottolineare che la xenofobia che accomuna tutti i partiti di cui stiamo parlando non è semplicemente un odioso espediente per raccogliere con poca spesa il massimo consenso possibile. Essa viene piuttosto incontro alla specifica esigenza di una parte del capitale, che non è già quella di avere una nazione priva di immigrati (tutti sanno che questo non è possibile), ma piuttosto quella di avere una nazione piena di immigrati clandestini, e quindi più facilmente sfruttabili. Basterebbe solo questo a farci capire che la giusta indignazione contro i Macron non può annebbiarci la vista al punto di non vedere cosa sia la Le Pen (e Salvini) e di attribuire una qualche valenza latamente costituzionale e di sinistra a chi persegue come scopo primario la dualizzazione rigida del mercato del lavoro. E che in cambio non ci porta nemmeno una coerente posizione anti-euro.
2. Estetica delle alleanze
Insomma, i Macron e le Le Pen, e ciò che essi rappresentano, per noi pari sono: se proprio vogliamo semplificare, sono destra tecnocratica e destra populista. E se proprio dobbiamo stabilire una gerarchia possiamo tranquillamente dire che i primi, per la loro potenza di fuoco e la loro riconosciuta capacità di corrompere tutta la sinistra, sono al momento gli avversari più pericolosi. Il che non autorizza, ovviamente, ad appoggiare automaticamente il “meno peggio”, ma serve a ricordarci che le alleanze tattiche, le convergenze obiettive, le giuste e necessarie manovre che una degna forza politica popolare, se mai ci fosse, dovrebbe porre in essere (in particolare in una situazione di crisi) non possono essere bloccate fin dall’inizio da una serie di “mai con Tizio”, “mai con Caio”. Fare politica – è imbarazzante doverlo ricordare – significa anche fare alleanze oggi col diavolo, domani con l’acquasanta e dopodomani con entrambi. E dopodomani l’altro romperle tutte. Rifiutarsi di ammetterlo non è più, ormai, un atto di primitivismo politico dettato da una nobile posizione etica, giacché il primitivismo sarebbe comunque uno stadio evolutivo, ed una matura posizione eticapotrebbe comunque trovare il modo di risolvere la difficile mediazione con la politica. Qui siamo piuttosto di fronte a ben altro: poiché la massima parte della sinistra, sulle questioni essenziali, non è più capace di distinguersi veramente dal discorso dominante, alza la voce sulle questioni secondarie. Poiché non è più in grado di articolare una qualche pur pallida politica, riduce il tutto all’autoaffermazione narcisistica, dentro i flussi dei media, di sé e della propria pretesa differenza. La politica è così sostituita da una specie di selfie permanente e l’estetica (altro che l’etica!) domina su tutto: una miserevole estetica le cui forme sono, appunto, già formattate dall’industria della comunicazione. Per altro, e su questo chiudo, il rifiuto pseudo-etico delle alleanze con questo o con quello è soprattutto un atto ipocrita e imprudente. Ipocrita perché le convergenze spurie sono tutt’altro che rare, e soprattutto in parlamento. Imprudente perché a tutti può capitare di dover inevitabilmente accettare alleanze sgradite. Qualcuno ricorda cosa fece Tsipras per formare il suo primo governo? Qualcuno degli attuali pseudo-antifascisti ebbe qualcosa da eccepire? Giustamente no. Nessuno che abbia un minimo di buonsenso politico rimprovera a Tsipras di essersi alleato con la destra nazionalista per andare al governo. Piuttosto gli va rimproverato di essersi alleato con la destra globalista per restarci.
3. Dopo la destra tocca alla sinistra?
Passiamo al resto, ossia alle cose più importanti. Il risultato della lotta per l’Eliseo segna la fine del primo “ciclo” dell’antieuropeismo di destra. Prima l’Olanda, poi la Francia. In Germania l’Afd è messa in difficoltà dal finto duello tra Schulz e Merkel. In Italia, pur sfruttando al massimo la questione dei migranti e pur usando intelligentemente i social media, Salvini non sembra essere in grado di preparare sorprese, anche a seguito della sconfitta di Marine. A dispetto degli “antifascisti” di cui sopra, la risposta della destra a questa situazione molto probabilmente non sarà quella della radicalizzazione, ma quella della moderazione: in questo senso già giungono esplicite dichiarazioni dall’interno del Front National e si può presumere che la Lega metterà in riga le intemperanze antieuropeiste del suo leader (per la verità ultimamente assai meno accentuate) ed opterà per un accordo con Berlusconi su basi certamente diverse da quelle che precedentemente ipotizzate. Se tutto questo sia un astuto camuffamento o (cosa che mi pare più probabile) il segno della mancanza di autonomia strategica del piccolo capitale rispetto al grande, è cosa che dirà il tempo (che magari ci regalerà qualche riedizione in peius dell’alleanza Renzi-Berlusconi, glorioso compimento di decenni di battaglia frontista contro il fascismo di Mediaset).
Così come il tempo dirà il senso dell’altro fenomeno che si rafforza con le elezioni francesi, ossia la ripresa della sinistra “alternativa”. La cosa non è episodica, e designa ormai una tendenza . Prima di tutto Syriza sulle ceneri del Pasok. Poi Sanders, (l’evento in prospettiva più importante); poi la radicalizzazione di Corbyn e di Podemos, ed ora Mélenchon. Si tratta in buona misura di una tendenza che nasce by default, ossia a causa delle difficoltà dei democratici americani e del volatilizzarsi del partito socialista europeo in tutte o quasi le sue varianti. Se è vero che la rivoluzione mangia i propri figli, è forse altrettanto vero che la controrivoluzione mangia i propri padri: come Renzi ha mangiato D’Alema e Bersani così Macron ha mangiato Hollande e nessuno più sente il bisogno di coprire con una blanda retorica socialista la realtà di un neoliberismo che si racconta ormai facilmente da solo : individualismo, libertà, progresso, meritocrazia, competizione…. Ma siccome un generico spazio socialista esiste pur sempre nello scenario politico europeo, ed anzi viene ampliato dal persistere della crisi, ecco che esso viene fisiologicamente riempito da chi in questi anni si è presentato come “più di sinistra” dei vari PS. Al riguardo non è lecito farsi soverchie illusioni: nonostante le innovazioni organizzative (Syriza, Podemos) e comunicative (ancora Podemos e poi Mélenchon), sulle questioni essenziali le idee non sono affatto sufficientemente chiare, a dispetto dei relativi progressi rappresentati, appunto, da Mélenchon. L’esito delle vicende greche è davanti a tutti, ma nessuno sembra averne tratto fino in fondo la più seria lezione, e ancora ci si illude sulla possibilità di trasformare l’Europa. E’ pur vero, però, che la durezza delle contraddizioni in campo non rende così facile ripetere ad infinitum i mantra dell’europeismo critico e che – a differenza del passato – la possibilità di una rottura dell’Unione e dell’euro non è più vista come una iattura o come un peccato mortale. E soprattutto, se una sinistra radicale entrerà davvero in campo come sostituto di quella moderata, se quindi essa sarà costretta finalmente a scelte reali e non meramente ipotetiche, è probabile che si accentuino sia la tendenza Tsipras che la tendenza Mélenchon e che il loro scontro, in presenza di un’iniziativa politica da parte di quella (pochissima) sinistra che ha maggiormente compreso la posta in gioco, potrebbe produrre spostamenti interessanti. Che comunque non basteranno.
4. Centristi, centrali, eccentrici
A spingermi a dire che non basteranno è una riflessione sui motivi che rendono così difficile un’efficace espressione politica del grave malessere sociale europeo. C’entrano, certamente, fattori come la leggera ripresa dell’economia mondiale, la svalutazione dell’euro, la politica della Bce, il basso prezzo del petrolio. C’entra l’ormai leggendario “diportamento scaricabarilistico” (come l’avrebbe chiamato il Gadda) della governance europea, che è nata proprio per scaricare le responsabilità ora sui governi nazionali, ora sulla Commissione, poi sui ministri dell’economia, poi sul Consiglio d’Europa o su quello europeo, in modo che alla fine, “signora mia, qui non si sa più a chi dare la colpa”. Ma tutto ciò non può comunque nascondere le dure e crescenti contraddizioni dell’Unione: la polarizzazione tra economie nazionali e tra classi procede, e se la continua diminuzione dei redditi che ne consegue non si trasforma in protesta organizzata di massa ciò si deve forse non soltanto alla difficoltà, da parte degli elettori, di articolare con precisione la domanda politica, ma anche all’assenza un’offerta politica adeguata.
La domanda politica è inevitabilmente frammentata, proprio come effetto voluto delle politiche liberiste ed europeiste di questi decenni: chi è disposto a qualunque lavoro e chi vuole solo il lavoro creativo, chi vuole più sicurezza e chi più libertà, chi vuole protezione e chi autonomia, chi si vive come consumatore gratificato dal web e chi come produttore che dal web è “uberizzato”. Per ricomporre il mosaico sarebbe necessario un programma capace di rilanciare la piena occupazione e nel contempo la riduzione degli orari di lavoro, di riproporre il welfare e nel contempo di includervi realmente le figure diverse dal lavoratore stabile e garantito, di ricostruire la proprietà pubblica e attraverso questa di stabilire rapporti positivi con le PMI, di sanare la frammentazione del lavoro (fonte di debolezza politica e di inefficienza produttiva) promuovendo direttamente o incentivando la reinternalizzazione delle funzioni sia nell’apparato di stato che nel settore privato. Un programma e una cultura capaci di promuovere le libertà individuali e nel contempo di tutelare le forme comunitarie liberamente scelte, di valorizzare senza paura la funzione unificante dell’appartenenza nazionale (in quanto appartenenza ad una comunità politica fondata sui diritti dei lavoratori) e nel contempo di promuovere rapporti paritari con le altre nazioni. Né la destra estrema né la sinistra radicale sono attualmente in grado di proporre un programma del genere. In entrambi i casi la ristrettezza della base sociale (il piccolo imprenditore da un lato, il lavoratore garantito e/o qualificato dall’altro) ostacola l’espansione verso altre classi. Certo, la sinistra potrebbe avere nel proprio arsenale la memoria politica e le risorse teoriche necessarie per attuare un’operazione del genere, ma anche ammesso che, superando la cultura radical e neoanarchica che la contraddistingue, riuscisse a ricordarsene, si troverebbe di fronte al muro che anni di liberismo da un lato e di libertarismo spiccio dall’altro hanno alzato tra la sinistra (in tutte le sue espressioni) e i cittadini più colpiti dalla crisi. Insomma, né la destra né la sinistra sembrano oggi in grado di riuscire nell’invasione del territorio elettorale altrui, ossia nell’unica operazione che consentirebbe di costruire la larga maggioranza popolare necessaria a gestire il complesso passaggio sociale e geopolitico che incombe su tutti. Se all’epoca del bipolarismo l’essenziale era mantenere i voti propri e conquistare quelli del centro “moderato”, oggi, e soprattutto per noi, l’essenziale è conquistare i voti popolari che gravitano verso il polo opposto. E superare in tal modo l’artificiosa divisione dei lavoratori tra una destra ed una sinistra entrambe capitaliste. Può sembrare una posizione centrista: in realtà è una posizione eccentrica rispetto a tutto ciò che la sinistra ha lambiccato dalla “presa di Mosca” da parte del capitale ad oggi. Ed aspira a divenire una posizione centrale negli equilibri politici delle nazioni europee.
5. Figlie del ’17 (quello vero)
Proprio perché il disagio sociale europeo è assai vasto ed attraversa ceti popolari molto diversi tra loro, una simile operazione può essere condotta in porto soltanto da una forza che, in ogni singola nazione, si richiami essenzialmente, prima che alla sinistra o alla destra, allo spirito delle Costituzioni, al loro carattere lavorista, alla sicurezza sociale che esse hanno negli anni cercato di tutelare. Non si tratta affatto di rinunciare ai valori della sinistra. Anzi, è assolutamente necessario che nascano ovunque una o più forze radicalmente socialiste: ma tali forze devono poi trasformarsi in qualcosa che le trascenda, oppure dar vita ad una coalizione costituzionale che in ogni caso faccia appello non alle pregresse appartenenze ma ai migliori e più diffusi valori civili e sociali. So che molti rivoluzionari storceranno il naso: eppure se c’è un lascito duraturo dell’Ottobre, se l’onda lunga del movimento proletario del novecento ha lasciato un segno reale nella storia europea, questo è proprio l’insieme del pensiero sociale costituzionale e della prassi conseguente. E se è vero che sia le Costituzioni che il welfare che ne è scaturito sono stati usati per cooptare il movimento operaio e le sue organizzazioni nello stato capitalistico, è altrettanto vero che alla prima occasione quello stato ha dismesso il welfare ed ha stracciato le Costituzioni, cosicché oggi un ritorno al passato è possibile soltanto costruendo rapporti sociali nuovi, nuovi anche rispetto a quelli che hanno sostenuto il precedente compromesso “fordista”: ossia rapporti tendenzialmente socialisti. La Costituzione, in quanto formalizzazione dei diritti dei cittadini come lavoratori, è il punto in cui si raggiunge il mix ottimale tra il massimo di radicalismo ed il massimo di consenso possibile, ed una forza costituzionale è l’unica in grado di raccogliere consensi ovunque. In fondo, nonostante la sua polemica contro il presidenzialismo della Costituzione francese, è stato proprio lo spirito nazional-costituzionale a costituire la base del successo di Mélenchon. I comizi di Mélenchon ve li potete vedere sul web: un tripudio di tricolori. Ve la vedete la sinistra radicale italiana a sventolare il tricolore? Io no.
6. La questione concreta
L’ora della sinistra alternativa (forse l’ora dell’inizio di un ciclo che potrebbe concludersi con la sua definitiva scomparsa o con la sua rilegittimazione storica) è scoccata in gran parte d’Europa, ma non in Italia. E non solo per i paurosi limiti della nostra gauche. Il fatto è che qui da noi lo spazio della forza costituzionale che potrebbe convogliare al meglio le residue energie della gauche è momentaneamente (ma saldamente) presidiato da una forza politica che, però, non sa o non può svolgere veramente questo ruolo: il M5S. Il M5S sta al posto giusto, ma non nel modo giusto. Questa collocazione ne fa il punto archimedico della situazione politica italiana, molto più di quanto non lo siano il PD, il centrodestra la Lega: il futuro di questo paese è in mano al M5S oppure a chi lo sconfigge, a chi lo fa evolvere, a chi ne raccoglie, eventualmente, gli aspetti e le forze migliori. Chiunque, partendo da una posizione di sinistra classista, cerchi di costruire un credibile progetto di rottura dell’Ue e di nuova cooperazione internazionale in funzione di un diverso modello economico-sociale, non può assolutamente evitare di chiarire la propria posizione rispetto al M5S ed alla prossima (quanto prossima?) scadenza elettorale. Scadenza che, mentre si addensano conflitti sociali che per fortuna qualcuno organizza e tenta di indirizzare nel verso giusto (Alitalia, ma non solo), rappresenterà in ogni caso l’epicentro dello scontro politico italiano. Ci sarà modo di riparlarne.
Fonte: socialismo2017.it
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