Ieri si è svolta a Roma l'annunciata manifestazione di solidarietà con le maestranze di Alitalia, per l'esattezza, con quelle che hanno votato NO
all'accordo truffa del 24 aprile. Con i lavoratori che oggi, malgrado
le intimidazioni, stanno incrociando le braccia —mi dicono che questo
sciopero è stato un successo, se è vero, com'è vero che solo a Fiumicino
ben 242 voli sono stati cancellati.
Di
passata mi viene da fare una proposta: facciamo santi Fabio Frati e
Antonio Amoroso, della CUB Trasporti, due sindacalisti che si tengono
sulle spalle quasi tutto il peso della resistenza di quest'azienda che
il governo vuole squartare per venderla a pezzi ai concorrenti. Di loro
due scrivevo già il 26 aprile scorso.
E'
grazie alla tenacia di questi due sindacalisti, al loro vero e proprio
apostolato combattente che la manifestazione di ieri è stata un
successo.
Mi
dicono che fino all'ultimo istante i due, per quanto potessero contare
sull'appoggio di un manipolo di precari e di lavoratori decisi a vendere
cara la pelle, temevano il peggio. Invece anche questa volta hanno
avuto la meglio, hanno avuto ragione. In migliaia e migliaia hanno
risposto al loro appello alla mobilitazione. Ed è stata una
manifestazione rumorosa, festosa, combattiva, bella.
I
media di regime l'hanno completamente oscurata — niente, nemmeno nelle
loro cronache locali - giornali come Repubblica, Il Messagero o il
Corriere. Un caso? No, un disegno preciso del nemico e dei suoi
pennivendoli. Deve calare un tombale silenzio sulla resistenza dei
lavoratori Alitalia. Non solo perché essi disprezzano chi si guadagna da
vivere col proprio lavoro, non solo per fare un favore ai tre
commissari liquidatori. Questa volta c'è una ragione in più, una ragione
tutta politica.
Questi
lavoratori non si limitano a resistere, chiedono la nazionalizzazione
della compagnia, avanzano misure e proposte precise, fattibili, in
merito al rilancio di Alitalia. E' quindi, la loro, una lotta che ha
oramai uno spessore tutto politico. Non è in ballo soltanto questo o
quel diritto, è in ballo il destino della compagnia di bandiera. Non è
questa una mera vertenza sindacale, è una partita nazionale, strategica.
Da una parte un governo che in ossequio ai suoi padroni e ai dogmi
liberisti ti dice che deve decidere "il mercato". Dall'altra chi lavora
che risponde che Alitalia è un bene comune, un patrimonio nazionale.
A
nessuno deve sfuggire che lo striscione d'apertura del corteo suonava
"Giù le mani da Alitalia! Giù le mani dall'Italia". Segno di un orgoglio
al tempo stesso, proletario e patriottico.
Forse è proprio per questo che si sono viste tante assenze, la ragione, infine, di chi ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco.
Una
grande e bella manifestazione, dicevo, anche perché è stato il punto di
raccolta (inatteso) di tante realtà del mondo del lavoro di Roma e
dintorni. C'erano infatti almeno una ventina di delegazioni di aziende
in lotta, di cui nessuno parla né vuole parlare, e che ieri hanno fatto
sentire le loro voce, la loro rabbia contro il precariato, contro salari
di fame spesso saldati in ritardo, contro i tanti soprusi che si
debbono subire in ambienti di lavoro diventati da anni vere e proprie
palestre di schiavismo.
Chi
conosce il clima nei posti di lavoro, chi conosce quanto la città di
Roma sia puttana e maligna, sa che questa manifestazione è stata un
mezzo miracolo, un evento.
Che
essa segni davvero una svolta, verso un'unione dei lavoratori, verso un
riscatto dei senza voce, non sono in grado di dirlo. Lo vedremo nei
prossimi mesi. Sugli arditi del popolo di Alitalia che l'hanno promossa
sembra gravi ora un'altra grande responsabilità: fungere da punto di
raccordo di tutte queste realtà del mondo del lavoro metropolitano
disperso e atomizzato. Ciò senza dimenticare che Alitalia è adesso il
centro geometrico di quella polvere d'umanità che è diventato il mondo
del lavoro a Roma e dintorni.
Ora serve continuità, alzare il tiro inventandosi azioni esemplari e intelligenti.
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