Esistono
alcune categorie del conflitto politico che tendono a ricorrere nella
storia delle società divise in classi, sia pur con forme molto
variegate: tra queste vi è per esempio il costituirsi di formazioni
rappresentative delle istanze dei poveri contro quelle dei ricchi, di
chi è escluso dalla detenzione del potere politico contro chi ne è
incluso, delle minoranze religiose/etniche/linguistiche contro e in
difesa dalle maggioranze e così via. Tra queste categorie non rientra,
invece, la “sinistra”, nozione epistemologicamente vaga, che rimonta
alla Rivoluzione francese, strettamente legata al modo di funzionare (e
ai limiti!) delle assemblee parlamentari, idonea a riempirsi di
contenuti storicamente diversi nel corso degli ultimi secoli e ad
esprimere interessi sociali tra loro variegati.
Per
venire al panorama italiano, nessuno si sognerebbe di identificare la
Sinistra storica con le istanze del quarto stato, che nel frattempo
cominciavano a organizzarsi politicamente altrove (Partito socialista,
sindacalismo rivoluzionario, movimento cooperativo, ecc.) e, pur senza
disconoscere importanti convergenze con l’Estrema sinistra storica,
assumevano ben presto un profilo autonomo anche da essa. Al
di là della collocazione fisica degli eletti nelle aule
rappresentative, l’identificazione della “sinistra” con le formazioni
rivoluzionarie delle classi popolari resta un discorso a lungo
minoritario nell’immaginario socialcomunista italiano, salvo riaffiorare
in misura crescente nel corso della prima Repubblica, da un
lato con l’ammorbidimento progressivo e scaglionato dei connotati
rivoluzionari delle fazioni che in assemblea costituente avevano
rappresentato le istanze delle classi popolari, dall’altro con la sua
ripresa semantica ad opera di forze nate negli anni del movimento,
connotata dall’aggettivo “rivoluzionaria” per distinguersi dalla deriva
compatibilista adottata, in ultimo, anche dal PCI del compromesso
storico. L’identificazione
nominale tra movimenti rivoluzionari e “sinistra” prendeva corpo e si
riempiva di significato in molti Paesi e contesti geopolitici (un
esempio tra tanti, il MIR in Cile), senza, probabilmente, diventare
maggioritaria tra le popolazioni del mondo (per es., senza prendere
piede nel continente più popoloso, l’Asia).
Tutto
ciò testimonia come l’identificazione tra sinistra e istanze popolari
di trasformazione sociale, o quantomeno la loro convergenza, siano state
possibili e persino frequenti tra l’età moderna e quella contemporanea e
siano tuttora probabilmente attuali e significative in alcuni Paesi; in
molti altri no, e lì le esperienze politiche di rottura di maggior
interesse sono proprio quelle che hanno saputo disfarsene, senza con
questo compromettere i propri connotati e contenuti rivoluzionari, ma
adattandoli al tempo. Tornando a noi oggi
in Italia, ritengo politicamente sbagliato e fuorviante operare una
simile equazione. Non identificandosi la “sinistra” con un significato
preciso e circoscritto, ma con nozioni storicamente determinate e di volta in volta convenzionali, non
vedo l’utilità di accanirsi a negare a Renzi, D’Alema e relative
consorterie il fregio della sinistra, quando essi sono diffusamente
percepiti come tali.
Una
tendenza negli ambienti politici progressisti è invece quella di
sostenere che costoro hanno tradito la sinistra e di cercare di
ricostruire una sinistra contro e fuori questa “falsa” sinistra. Questo
modo di operare mi sembra fondarsi sull’assolutizzazione e
cristallizzazione di certe nozioni di “destra” e “sinistra”, quali
quelle autorevolmente definite da Bobbio intorno alla dialettica
eguaglianza-libertà. Il punto non sta affatto nel criticare la teoria di
Bobbio (anzi, la dialettica eguaglianza-libertà resta fondamentale nel
definire lo spettro delle posizioni politiche!), ma di interrogarsi
sull’utilizzabilità oggi, nella politica italiana, per realizzare un
programma politico di rottura, del quadro semantico (convenzionale) a
cui Bobbio, tra gli altri, aveva agganciato la propria analisi. Ecco,
penso che la risposta a questa domanda non possa che essere pragmatica,
ed essa deve essere positiva laddove la nozione di sinistra abbia
mantenuto un forte ancoraggio popolare e l’abbandono di certi valori da
parte di formazioni con una storia di sinistra possa essere diffusamente
percepito come un tradimento di quei valori. È un’operazione politica
che, forse, 15 anni fa avrebbe potuto avere un senso; oggi, nel nostro
Paese, i suoi presupposti non ci sono più e tentare di perpetuarne le
vestigia diventa solo una fonte di confusione e di ambiguità, uno
stratagemma in cui tanti si sono crogiolati per anni al solo scopo di
raggranellare qualche poltrona e poltroncina, ben lontani dal senso
comune e creando un terreno fertile per quei gruppuscoli
terzo-posizionisti che, dietro la critica dell’inattuale e impopolare
dialettica destra-sinistra, e provando a cancellare con essa anche la
dialettica fascismo-antifascismo, cercano, con qualche successo, di
creare spiragli per il riaffiorare della più bieca e aperta reazione.
Per
cui, in definitiva, lasciamo la sinistra a Renzi e D’Alema, lasciamo la
sinistra al capitale, o meglio ad alcuni suoi settori (come d’altronde
era già ai tempi di Depretis e Crispi), e, piuttosto che spendere sforzi
disperati per risemantizzare in senso di rottura un concetto
perfettamente riassorbito nella sfera della compatibilità al sistema,
individuiamo le parole più adatte a costellare il nostro immaginario di
rivoluzionari del nostro tempo, i concetti-chiave che più si prestano a
fondare un tale discorso e facciamo dello stesso un paradigma unificante
di contro-egemonia e di contro-potere popolare! Renzi e D’Alema sono la sinistra; noi siamo la rottura sociale, noi i rivoluzionari!
* Fonte: Senso Comune
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