ELEZIONI 2018: LA PROPOSTA DELLA C.L.N.

23.6.17

Rapina in banca, modello "Intesa" di leonardo Mazzei

Le mani (non invisibili) sulle banche venete

Un euro privato contro 6 miliardi pubblici, come scambio ineguale proprio non fa una piega. Non devono averci messo molto i tecnici del sig. Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, a formulare la loro offerta d'acquisto per Veneto Banca e per la Banca Popolare di Vicenza.

La loro operazione sarà durata, sì e no, un paio d'orette. Lorsignori hanno preso due scatole, nella prima (denominata good bank) hanno messo la polpa - gli sportelli, i depositi, i crediti sicuri; nella seconda (denominata bad bank) hanno accatastato le ossa - i crediti deteriorati, quelli comunque considerati a rischio, le obbligazioni subordinate, i rischi connessi alle azioni legali. Per la prima si sono detti disposti a spendere nientemeno che la bella cifra di un euro. Per la seconda chiedono che lo Stato di euri ne sborsi 6 miliardi.

Naturalmente, di fronte a cotanta generosità, la stampa nazionale è già scattata come un sol uomo a ringraziare la munificenza del Messina: gli si dica subito di sì, che i mercati hanno fretta; si prepari la somma richiesta senza indugio, che si tratta di banche mica di pensionati. E, siccome - vedete le complicazioni della democrazia - per spendere quei soldi ci vuole una legge ad hoc, la si faccia subito, ovviamente per decreto, e che il parlamento esegua e zitto.

Ma al parlamento non solo questo si chiede. Oddio, "chiedere" è un verbo un tantinello inadeguato, perché il sig. Messina non chiede, ordina. E, tra le altre cose, l'ordine è quello di sfornare un'apposita legge per sterilizzare le cause legali, quelle presenti e quelle future.

Ma, signori, non c'era una volta il "mercato"? Secondo la leggenda, che ne dichiarava la sua sacralità, sarebbe stata la sua "mano invisibile" a risolvere tutto per il meglio. In fondo è quel che si dice al disoccupato: sei senza lavoro perché non sei riuscito a trovarne uno, dunque la colpa è tua, devi impegnarti di più e (soprattutto) devi abbassare le tue pretese in salario e diritti. A quel punto la mano invisibile del mercato interverrà ed avrai il tuo reddito, viceversa il "mercato del lavoro" ti punirà e morirai di fame. Ma sarà giusto così, perché «non esistono pasti gratis» (Mario Monti) e bisogna rieducarsi alla «durezza del vivere» (Tommaso Padoa Schioppa).

Ma quel che vale per il disoccupato non vale per le banche. Queste ultime non possono fallire, specie le più grandi, secondo il principio Too big to fail. Principio che evidentemente mostra la totale fallacia dell'ideologia mercatista. Dunque, per dirla alla Woody Allen (ma la frase sembra rubata a Ionesco): «Dio è morto, Marx è morto, ma anche il mercato non si sente tanto bene».

Che l'ideologia mercatista faccia acqua da tutte le parti non può negarlo neppure il Sole 24 Ore, il che è tutto dire. L'editoriale di oggi di Marco Onado ha un titolo che dice quanto basta: «Come dare una mano alla "mano invisibile». Ecco un'ammissione certo più sincera di quanto siano disposti a riconoscere i liberisti di sinistra, per il quale il "mercato" - meglio, i "mercati" - hanno sempre ragione, e chi lo nega è un residuo ottocentesco.

Naturalmente per Onado, lo Stato deve intervenire solo quando ci sono fallimenti di "mercato" che il "mercato" non può correggere. Si tratta in tutta evidenza di una tesi assai interessata, che resta però interessante nella misura in cui ammette che il mercato non è onnipotente, che può fallire, che va corretto. Il che, trattandosi della divinità più adorata degli ultimi decenni, non è davvero poco.

Ma come realizzare la suddetta "correzione"? Per lorsignori la ricetta è nota: pubblicizzando le perdite e salvaguardando i profitti privati. E qui torniamo all'offerta di Intesa Sanpaolo per le banche venete.

Chi ci segue sa quali sono le nostre idee sulla crisi bancaria: le banche vanno sì salvate, onde evitare un pesante disastro per l'intera economia del Paese, ma vanno immediatamente nazionalizzate (leggi qui).

Questa nostra posizione è stata oggetto di diverse critiche, quasi avesse una mera matrice ideologica, o fosse comunque irrealizzabile a causa dei suoi costi per lo Stato. Ebbene, il caso delle banche venete, così come quello precedente di Mps, ci dimostra l'esatto contrario. Nazionalizzare non solo è possibile, è doveroso. E lo è non solo perché soltanto con il controllo pubblico del sistema bancario sarà possibile rilanciare l'economia, ma anche perché in caso contrario il ruolo dello Stato sarebbe solo quello di servitore di giganteschi interessi privati. Certo non è questa una novità, ma non si vede proprio perché si dovrebbe avallare la prosecuzione di questo andazzo, specie dopo il disastro che le banche private hanno prodotto.

Nel caso in questione ci ritroviamo con lo Stato chiamato a sobbarcarsi tutti i costi dell'impresa. E, contrariamente a quel che si vorrebbe far credere, la proposta di Intesa Sanpaolo va addirittura oltre al modello spagnolo con il quale, nei giorni scorsi, il Banco Santander si è fagocitato il Banco Popular. Il modello non è lo stesso perché il Santander si è perlomeno accollato l'onere della ricapitalizzazione, esattamente quello che invece il sig. Messina si è premurato di escludere tassativamente, chiedendo - meglio: ordinando - che a tal fine provveda lo Stato.

Bene, cioè malissimo, abbiamo già visto come Intesa Sanpaolo voglia portarsi a casa le banche venete - conquistando così una posizione di grande privilegio nel Nord-Est - all'esoso prezzo di un euro. Ora la domanda è questa: se l'operazione andrà davvero in porto, saremo di fronte ad una valutazione equa oppure davanti ad un'incredibile regalia? Se nel secondo caso dovrebbe esservi lavoro anche per la magistratura (ma su questo non ci illudiamo proprio), in un caso come nell'altro perché non nazionalizzare le due banche? Perché sborsare 6 miliardi per ripianare il passivo, per poi risparmiarne uno (di euri non di miliardi) per non nazionalizzarle?

E' da notare che l'offerta di Intesa non tutela neppure i risparmiatori, visto che il destino dei possessori di obbligazioni subordinate, appare destinato a restare alquanto incerto. Ancora meno tutela l'occupazione, visto che dei circa 10mila lavoratori attuali cinquemila dovranno andare a casa.

E allora, perché non nazionalizzare?
Domanda retorica, dato che in realtà la risposta è nota: perché comandano le grandi oligarchie finanziarie, perché il credo mercatista resta lì a dispetto dei suoi fallimenti, perché è su questo dogma che è stata edificata la schifosissima Unione Europea. Che pretende di dettar legge su tutto, ma sulle banche ancor di più.

Tuttavia, i fatti restano. Ed hanno la testa dura, anche se non come quella di chi ancora crede nel "mercato".

E i fatti di cui ci stiamo occupando gridano davvero vendetta. Il regalo al sig. Messina ed ai suoi azionisti è ributtante. La proposta di Intesa Sanpaolo non è una "offerta", è una rapina bella e buona. Ancor più grave se legalizzata con legge dello Stato. Vedremo se alla fine tutto ciò andrà in porto, ma il fatto che a questo punto si sia arrivati è la conferma più lampante di quanto la nazionalizzazione del sistema bancario sia necessaria quanto urgente.

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21.6.17

SENSO COMUNE in assemblea

Gli amici di Senso Comune svolgeranno sabato prossimo la loro prima Assemblea nazionale.
Ci saremo anche noi, ad ascoltare, a capire, a dialogare, nella speranza che prima o poi sia possibile unire le forze.

«Se sei stufo di vivere in un paese dove pochi se la godono e gli altri si devono arrangiare. Se ne hai abbastanza di una politica che fa l'interesse dei furbetti a svantaggio dei cittadini. Se hai capito che lamentarti da solo serve a poco e che per farci sentire dobbiamo metterci assieme, vieni a "La Piazza del Popolo", la prima assemblea nazionale di Senso Comune, sabato 24 giugno, Piazza dei Ciompi, Firenze.

PROGRAMMA
10.30 ||| Introduzione
​11.30 ||| Discussione strategia e organizzazione
​13.30 ||| Pranzo
​15.30 ||| Gruppi di lavoro
18.00 ||| Chiusura

COME ARRIVARE
||| a piedi dalla stazione Firenze Santa Maria Novella: 20 minuti

||| in autobus dalla stazione Firenze Santa Maria Novella: linea C2 direzione "Piazza Beccaria". Scendere alla fermata "Annigoni"

||| in auto: uscita autostrada A1 "Firenze Sud" - imboccare raccordo - uscita dal raccordo "viale Europa" - imboccare viale Europa - viale Europa diventa viale Donato Giannotti - Piazza Gavinana - via Adriani - via Villamagna - Lungarno Francesco Ferrucci - Ponte San Niccolò - viale Giovanni Amendola - Piazza Beccaria. Parcheggiare Piazza Beccaria o zone limitrofe (strisce blu gratis il 24 giugno, per Firenze giorno festivo), oppure Parcheggio sotterraneo Beccaria (a pagamento), oppure Parcheggio sotterraneo Sant'Ambrogio (a pagamento). Raggiungere a piedi Piazza dei Ciompi».

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20.6.17

I GIOVANI TRA RASSEGNAZIONE E RIBELLIONE di Jacopo Di Miceli

I giovani italiani sono rassegnati: hanno la percezione di essere deboli, impotenti, isolati. E, in un certo senso, lo sono. Il 78% di loro (dati Eurobarometro) crede che la crisi economica li abbia marginalizzati, economicamente e socialmente. Una sensazione che è rispecchiata dal tasso di disoccupazione giovanile al 34% (fanno peggio solo Grecia e Spagna) e dal numero di laureati che svolgono mansioni al di sotto delle qualifiche (300mila, il 28% del totale).

La situazione non coinvolge tuttavia solo il nostro Paese, ma è un fenomeno globale. «È probabilmente la prima volta nella storia dell’età industriale, eccetto che per i periodi di guerra o di disastri naturali, che i redditi dei giovani sono caduti in questa misura se rapportati al resto della società», osserva il Guardian. In Francia, Germania, Italia, Stati Uniti e Canada i redditi dei ventenni sono almeno del 20% al di sotto della media nazionale. In Italia gli under 35 sono più poveri dei pensionati sotto gli 80 anni, addirittura il 10,2% di essi vive in povertà assoluta.

Per di più, i giovani diffidano della politica, dei partiti e del ruolo del parlamento (meno del 5% ha fiducia in queste istituzioni) e non ripongono alcuna speranza nell’attuale conformazione dei sindacati. Ne consegue non solo un’emarginazione sociale ed economica, ma anche politica, che si traduce in elevato astensionismo alle urne (il 27% non è nemmeno interessato a votare) e nell’incapacità di rivendicare efficacemente le proprie istanze.

Di fronte a una massa di individui atomizzati e disillusi, ha quindi gioco facile l’élite nel diffondere una narrazione che attribuisce ai giovani stessi ogni responsabilità per le loro condizioni. Vengono colpevolizzati perché scelgono percorsi di studi “inutili”, poco appetibili per il dio mercato. Vengono etichettati come “schizzinosi”, “bamboccioni”, “sfigati” perché impiegano troppo tempo a laurearsi, non accettano il primo lavoro propostogli ed esitano a lasciare la casa dei genitori. Vengono bollati come pigri, sfaticati, non abituati al lavoro.

Dall’altra parte, poi, si è insinuata una propaganda più subdola, che lusinga i giovani con l’obiettivo, tuttavia, di disinnescarne qualsiasi velleità rivoluzionaria. Ecco, ad esempio, il mito della “Generazione Erasmus”, nonostante il 95% dei giovani italiani non abbia mai studiato né lavorato all’estero, e le storie di successo dei “cervelli in fuga”, inserite in un flusso che se da un lato distorce la realtà, omettendo di citare i casi di italiani rimasti intrappolati in impieghi malpagati a Londra e Berlino, dall’altro alimenta il circolo vizioso della rassegnazione e dell’impotenza. Rimangono, infatti, in pochi a pensare di poter incidere sulle sorti del Paese; i più vagheggiano invece una svolta personale all’estero. L’emigrazione come costrizione, non come scelta, un presagio cupo che passa per la testa di almeno un giovane italiano su quattro (ben al di sopra della media europea).

I millennials sono anche vezzeggiati con l’appellativo di “generazione più istruita di sempre”, ma, allo stesso tempo, si domanda loro di sacrificarsi, di essere flessibili e di ripensarsi per non soccombere alla nuove sfide del mondo globalizzato, un eufemistico giro di parole per indurli a tollerare passivamente contratti precari, salari indegni e diritti al ribasso. Si esalta la loro creatività e capacità di innovazione, invitandoli a mettersi in gioco fondando start-up, perché “la cultura del posto fisso [..] ha distrutto una generazione”, eppure il 90% delle start-up è destinato al fallimento.

Qualora, invece, i giovani intendessero ribellarsi allo status quo, il nemico contro cui scagliarsi viene opportunamente calato dall’alto: i “vecchi”. Il conflitto generazionale diventa una comoda cornice entro cui interpretare le storture della società, un velo dietro il quale la classe dirigente occulta una realtà ben più complessa. I padri e i nonni, che spesso hanno rappresentato l’unico riparo dai tagli al welfare state, sono sbattuti al tavolo degli imputati, mentre resta impunito l’1% più ricco della popolazione, che in Italia si è accaparrato il 25% della ricchezza nazionale attraverso 30 anni di trasferimenti di capitale, favoriti da una politica compiacente verso la finanza ma punitiva verso i redditi da lavoro.

In questo modo, non sorprende che ai giovani rimangano pochi strumenti per combattere. Alcuni si rifugiano illusoriamente nel clicktivism, ovvero in campagne di sensibilizzazione a suon di hashtag, che costituiscono tuttavia una forma di partecipazione politica sconfitta in partenza, perché accetta le stesse regole delle campagne pubblicitarie e del mercato.

Altri ancora, come i ragazzi della Generazione Z, nata a ridosso del 2000, la prima a essere cresciuta con la crisi economica e l’insicurezza sociale, non sembrano nemmeno riuscire a immaginare un mondo diverso e accettano con ineluttabilità quanto gli aspetta: l’83% è ormai disposto a svolgere un tirocinio non retribuito dopo la laurea e l’82% a trasferirsi pur di lavorare.

Eppure, nel corso degli ultimi mesi, negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna, i giovani – quando si sono impegnati politicamente – hanno dimostrato di possedere la forza per dettare l’agenda e imprimere un cambiamento significativo al proprio Paese.

Negli USA, dove i millennials hanno ormai eguagliato numericamente i baby boomers e superano il 30% dell’elettorato potenziale, Bernie Sanders è stato inaspettatamente accreditato come il principale avversario dell’establishment nelle primarie democratiche e ha raccolto più voti di Clinton e Trump messi insieme, se consideriamo il voto degli under 30.

In Francia, nonostante i media mainstream non abbiano mancato di magnificare l’europeismo giovanilista di Macron, è stato al contrario Jean-Luc Mélenchon il candidato presidenziale preferito dai giovani, in particolare da chi ha fra i 18 e i 24 anni, una spinta che è risultata decisiva per trascinarlo a poche migliaia di voti dal ballottaggio.

In Gran Bretagna, infine, l’exploit di Jeremy Corbyn non sarebbe avvenuto se non fosse stato per la grande mobilitazione giovanile: nella fascia d’età compresa fra i 18 e i 34 anni il laburista supera ampiamente il 60% dei consensi.

E in Italia? I millennials sono più di 11 milioni, se si unissero, sarebbero il primo partito italiano e – al netto delle differenze che li separano al loro interno – avrebbero un’infinità di diritti in comune da rivendicare: introduzione di un salario minimo, stipendio equo e proporzionato al titolo di studio, soppressione della precarietà e stabilizzazione dei contratti, sostegno economico per l’affitto e l’acquisto della prima casa, certezza di poter disporre dei requisiti minimi per la pensione almeno un decennio prima dei 75 anni attualmente prospettati, servizi pubblici di orientamento professionale, possibilità di ottenere finanziamenti agevolati per l’imprenditorialità, maggiore progressività delle tasse universitarie, incentivi per l’accesso alla cultura, e soprattutto il diritto a non dover emigrare per realizzare i propri sogni.

C’è un senso comune trasversale ai giovani italiani: adesso spetta a loro cogliere l’occasione e scegliere se affondare nella rassegnazione o ribellarsi.


* Fonte: Senso Comune

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19.6.17

ALITALIA: INCHIESTA SUI CONTI (E I BUCHI) CHE NON TORNANO di Ugo Arrigo*

Ugo Arrigo (insegna Finanza Pubblica e Teoria delle Scelte Collettive presso la Facoltà di Economia dell’Università di Milano Bicocca) non è un anticapitalista, anzi. Come si vede dalla citazione di Einaudi, è un liberale che crede profondamente nel "libero mercato". Non condivide quindi, come noi, che ALITALIA debba tornare in mano pubblica. — vedi QUI. Tuttavia, per mestiere sa fare i conti. Leggete cosa ha scoperto sul dissesto ALITALIA e le sue cause....

Ricorda di firmare e far firmare 
l'appello ALITALIA ALL’ITALIA sulla piattaforma Change.org


Alitalia, i conti(dei buchi) non tornano.Quest'anno ho chiuso il mio corso del secondo semestre all'Università Bicocca con una lezione dedicata alla nuova crisi di Alitalia. Nel preparare i contenuti ho pensato a quali fossero le domande di maggior interesse per gli studenti, quelle alle quali cercare di dare prioritariamente risposta. All'interno di questa riflessione mi sono tuttavia accorto che vi è una domanda, e purtroppo anche la principale, alla quale una risposta argomentata e soddisfacente nessuno sembra al momento in grado di dare: perché la situazione economica di Alitalia si è così aggravata nel corso del 2016 e nella prima metà del 2017, tanto da portare il mese scorso alla dichiarazione d'insolvenza e al commissariamento? Eppure quest'anno e mezzo è stato un periodo eccezionale per il trasporto aereo: la domanda ha continuato a crescere anche nel nostro Paese a tassi elevati, il prezzo del petrolio è ai livelli minimi e le altre compagnie aeree hanno realizzato profitti che non si vedevano da prima della crisi prodotta dagli attentati alle torri gemelle sedici anni fa.

Perché allora la situazione di Alitalia, in uno scenario di mercato così favorevole, si è aggravata sino al dissesto? A quanto ammontano le sue perdite nel periodo? A cosa sono dovute esattamente? Le risposte a queste domande non sono note. Nessuno le conosce, o meglio, i pochi che le conoscono si sono ben guardati dal renderle pubbliche. La ragione per la quale non le conosciamo è molto semplice: non è stato depositato dai vecchi amministratori, entro la scadenza di metà aprile, prevista dalle norme, né successivamente, il bilancio d'esercizio del 2016 che avrebbe dovuto contenerle tutte quante. E perché il bilancio non è stato depositato? Gli amministratori non erano in grado di farlo? Molto difficile crederlo. La sede aziendale non ha subito eventi traumatici di nessun tipo in grado di compromettere una corretta tenuta dei conti. E da una corretta tenuta dei conti a un corretto bilancio d'esercizio il passo è molto breve.

Non può essere accettata al riguardo la giustificazione che il bilancio non c'è perché non è stato approvato. Se non vi è un bilancio approvato ve ne sarà uno non approvato, magari privo di effetti legali, ma egualmente interessante da un punto di vista conoscitivo, in grado almeno di spiegare le effettive cause del dissesto. Perché altrimenti, nell'ipotesi del persistere della sua indisponibilità, si è autorizzati a pensar male, a ritenere che le cause del dissesto non siano state rese note perché non sono divulgabili, e che il bilancio 2016 non sia stato depositato a metà aprile, rispettando le scadenze previste, perché la consapevolezza dei suoi contenuti avrebbe spinto i dipendenti di Alitalia a votare in massa per il No al successivo referendum. Cosa che hanno egualmente scelto di fare "al buio". Queste sono tutte ipotesi, prive al momento di prove. Tuttavia solo la conoscenza del bilancio 2016 è in grado di smentirle.

D'altra parte le informazioni di cui stiamo parlando sono anche quelle di maggior interesse per i soggetti economici che hanno manifestato interesse alla procedura di acquisizione di Alitalia. Chi comprerebbe un'azienda che si sa che è in dissesto ma non si sa perché e di cui non si hanno i conti? Cosa intendono mettere i commissari di Alitalia nella famosa "data room" se non i dati analitici di cui il bilancio d'esercizio rappresenta la sintesi annuale? E se vi sono i dati analitici com'è possibile pensare che non si disponga di una loro versione sintetica?

D'altra parte il peggioramento di Alitalia nel 2016 è proprio strano. È dovuto a una caduta del traffico in un anno di grande espansione del mercato? A una caduta dei prezzi medi, dovuta alla concorrenza? Oppure sono esplosi i costi? E se sono esplosi i costi, si tratta di costi industriali tipici, e in questo caso quali, oppure di errate scelte di carattere finanziario? In realtà qualcuna delle possibili cause possiamo ragionevolmente escluderla: non sono crollati i passeggeri, non sono crollati i ricavi medi del traffico, non è esploso il costo del personale e neppure quello dei servizi negli aeroporti e in rotta.

Sul primo fronte l'Enac ci dice nel suo annuario statistico che i passeggeri totali di Alitalia sono stati nel 2016 23,1 milioni, persino qualcuno in più dei 23 milioni del 2015. I prezzi medi si sono ridotti sul mercato, ma solo perché i vettori hanno girato ai clienti i risparmi, e neppure tutti, derivanti dal minor prezzo del carburante. Le tariffe aeroportuali e per l'assistenza al volo non sono cresciute. Non restano molti altri fattori. Neppure il costo della flotta, che si compone degli ammortamenti, dei costi del leasing e delle manutenzioni degli aerei, può essere esploso. Non resta allora che l'onere proveniente dagli errati contratti relativi ai derivati sui costi del carburante. Ma questa non è una componente della normale gestione industriale e se essa fosse la causa principale del dissesto economico il problema Alitalia risulterebbe assai più facilmente rimediabile. Significherebbe che Alitalia ha avuto un dissesto dei conti, ma non il grave dissesto di tipo industriale in cui abbiamo sinora ritenuto si trovasse in assenza delle corrette informazioni di cui la nostra analisi necessitava.

La seconda grande stranezza del caso Alitalia è che in tutti questi mesi non sia uscito un dato ufficiale sull'azienda e che gli ultimi dati certi siano quelli del bilancio 2015, depositato il 14 aprile 2016. In realtà pochi numeri ufficiali sui conti di Alitalia sono apparsi di recente nella sentenza del Tribunale di Civitavecchia che ha stabilito lo stato d'insolvenza, disponibile sul sito dell'amministrazione commissariale. Essa cita, senza indicare l'anno, la perdita d'esercizio di 408 milioni risultante dall'"ultimo bilancio depositato", ma il dato corrisponde alla perdita del 2015 e dunque non è nuovo. In aggiunta, tuttavia, la sentenza cita la "situazione patrimoniale aggiornata al 28.2.2017 (…), che riporta un patrimonio netto negativo di 111 milioni, perdite - solo nel periodo 1.1.2017-28.2.2107 - per 205 mil. (…)".

Queste due informazioni sono invece nuove, tuttavia non aiutano la comprensione dei conti di Alitalia e anzi la rendono più problematica. Intanto la perdita 2016 non è mai citata. Inoltre, se il patrimonio netto è divenuto negativo per 111 milioni al 28.2.2017 dopo un bimestre di perdite pari a 205 milioni questo vuol dire che esso era invece positivo per 94 milioni al 31.12.2016. Tale dato non è tuttavia compatibile con l'elevata e mai esattamente quantificata perdita del 2016. Il bilancio 2015 di Alitalia Spa, l'ultimo noto, evidenziava infatti un patrimonio netto positivo al 31.12.2015 per 51,9 milioni (tabelle di pag. 188 e 191 del bilancio 2015). Com'è possibile che in un anno di perdite consistenti, che hanno portato al dissesto, esso sia salito da 51,9 milioni a 94 milioni? Forse che l'esercizio 2016 ha chiuso in utile per 42,1 milioni? Il patrimonio netto si accresce infatti per effetto di utili di esercizio, che stando a ciò che è stato scritto non vi sono stati, oppure per aumenti di capitale dei soci, che egualmente non vi sono stati. Il mistero permane dunque fitto e nessuno ci ha sinora detto quanto abbia perso effettivamente Alitalia nel 2016 e per quali esatte ragioni.

Ad accrescere l'incomprensibilità del tutto sono infine pervenute alcune informazioni, in sé molto positive, pubblicate dai media sul primo mese di gestione commissariale: 1) neanche un euro del prestito ponte è stato sinora utilizzato (se non per il deposito cauzionale chiesto dalla Iata, che non è tuttavia un costo ma un credito); 2) i ricavi del mese sono stati maggiori dei ricavi dello stesso mese dell'anno precedente (250 milioni contro 240). Queste informazioni hanno due importanti implicazioni. In primo luogo ci dicono che Alitalia a maggio è in pareggio di cassa e inoltre che nell'arco di 12 mesi può superare i tre miliardi di ricavi. Infatti, in base alla stagionalità abituale, i passeggeri di maggio dovrebbero rappresentare un undicesimo dei passeggeri totali annui di Alitalia. Invece in termini di ricavi rappresentano una quota minore, dato che nei mesi estivi i proventi medi per passeggero sono solitamente maggiori. Inoltre, se Alitalia è in pareggio di cassa già a maggio, essa andrà sicuramente in attivo nei prossimi quattro mesi e l'attivo in tal modo accumulato non si esaurirà del tutto negli ultimi tre mesi dell'anno. In sostanza, l'attuale gestione commissariale appare in grado di realizzare un equilibrio di cassa per tutta la restante parte dell'anno, rinviando l'utilizzo del prestito ponte ai primi mesi del 2018.

Tutto questo è molto positivo, ma smentisce l'ipotesi che Alitalia si trovi in uno stato di grave dissesto industriale e probabilmente anche che vi si sia trovata nello scorso anno. Prima di decidere è opportuno conoscere. "Conoscere per deliberare" suggeriva Luigi Einaudi. Far chiarezza sui conti di Alitalia del 2016 e sulle vere cause, sinora ignote, del suo dissesto è doveroso nei confronti dell'opinione pubblica e nei confronti dei suoi dipendenti.

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17.6.17

CERVETERI: SUCCESSO DELLA FIACCOLATA POPOLARE di Luca Massimo Climati*

Cerveteri "serra la muraglia" !

Riuscito il corteo preventivo in paese per dire NO ALLE EMERGENZE ROMANE
FRUTTO DELLE LOBBIE TRASVERSALI DEL PROFITTO
Dietro lo striscione dei cittadini e degli agricoltori , oltre 250 partecipanti.

Una difficile scommessa vinta che riapre un varco tra sfiducia e senso di passiva rassegnazione . I cittadini riprendono protagonismo, oltre la kermesse elettorale.
Si semina il terreno per una futura e libera e nuova Cerveteri
La difesa del territorio coerente dei Comitati Uniti, ha avuto una nuova difficile ed utile
conferma .
Il segnale lanciato è chiaro : ABBAMO GLI OCCHI APERTI- NON CI PROVATE-
LE ZONE BIANCHE DEBBONO SPARIRE -

* Luca Massimo Climati è un esponente della Confederazione per la Liberazione Nazionale
* * * 
Qui sotto il comunicato dei Comitati di Cerveteri

Cerveteri, al via la fiaccolata contro i rifiuti di Roma annunciata così dai comitati uniti:

"Il nostro territorio, dai confini con Fiumicino, fino dentro quasi il territorio di Cerveteri (Procoio di Ceri e Monte Abatone), a soli due chilometri in linea d'aria dal centro del Paese, potrebbe essere interessato e scelto per fare fronte ad una incombente emergenza romana: sono le cosiddette "zone bianche" indicate da una circolare emessa dagli incaricati, competenti, dell'area metropolitana.

Le rassicurazioni non bastano, nemmeno il piano virtuoso, rimbeccato di fatto dal ministro Galletti, definito troppo tale e non recante ne discarica di servizio ne quella linea nuova di incenerimento per il Lazio, per ora non richiesta in sede regionale.
la fiaccolata di ieri sera. In testa Luca Massimo Climati, in prima fila il sindaco


Il continuo stato di emergenza romano, l'esito elettorale amministrativo e non ultima l'approvazione del decreto attuativo in data 8 giugno 2017, riguardo la Diretttiva2014/52/2017 , con oggetto L' iter "rivisitato" della VIA ,penalizzante di fatto i cittadini, giustificano apprensione e vigilanza.

E' bene dare un segnale preventivo, forte Unitario; per questo comitati, agricoltori, operatori e cittadini si sono e stanno mobilitandosi, superando un clima incredulo e di confusione e disinformazione su un argomento strategico, fondamentale per il nostro territorio.
Ora è possibile dare un segnale : dopo sarebbe troppo tardi; spesso nel periodo pieno augusteo, assistiamo spesso a discutibili provvedimenti, sulla testa dei cittadini".


Comitati Uniti per la chiusura definitiva di Cupinoro
Agricoltori e cittadini di Cerveteri

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14.6.17

ALITALIA: IL TEMPO DELLE TENEBRE? di Sandokan

Ovviamente anch'io ho firmato l'Appello "ALITALIA ALL'ITALIA".

2600 firme in sei giorni, un grande risultato, se si pensa che visto l'andazzo, le petizioni  "virali" sono quelle contro il massacro dei maiali... Quando sono i maiali a massacrare gli umani, come accade in Alitalia, il solo virus che pare funzionare è quello dell'ignavia.

Vedo ad esempio che su Change.org la petizione lanciata per salvare i cani di un canile del catanese ha raccolto più di 32mila firme in poco tempo.

A che punto siamo arrivati in questo Paese se la giusta pietas per delle bestie sopravanza quella per migliaia di lavoratori schiavizzati ed usa-e-getta in Alitalia?

Peggio ancora! Sentite quel che ci scrive un tal Maurizio B: 


«L'Alitalia deve chiudere. Basta privilegi. Dovevate accettare il piano proposto. Basta pagare per voi».
"Questa è l’ora vostra, questa è la potenza delle tenebre”, disse Gesù ai farisei che lo avevano appena catturato per poi crocifiggerlo. Forse che quello che viviamo è il tempo delle tenebre?

No, forse no..
Forse non tutto è perduto.
Leggo i tantissimi commenti dei firmatari dell'Appello e cala il mio pessimismo sul genere umano. Non è vero che gli italiani sono tutti rincoglioniti.
Ne riporto solo alcuni tra i tanti, leggerli tira su il morale.

Spero convinca chi mi legge e non ha ancora firmato a farlo ed a farlo circolare!
Per firmare: https://www.change.org/p/appello-alitalia-all-italia

"........per contribuire con una goccia di dignità ad un nuovo oceano di legalità"
Gemma Fasoli

"Firmo perché Alitalia serva da monito a tutto quello che é Italiano... Basta svendere il nostro paese, le nostre competenze al miglior offerente. Riprendiamoci i nostri diritti, per noi e per i nostri figli. Diamo valore al nostro lavoro. Noi italiano siamo un'eccellenza e allora tuteliamoci..."
Melissa Pulcinella


"L'Italia ha fatto gia ' fallire l'informatica (Olivetti).... non possiamo non avere una compagnia di bandiera italiana !!!"
Fernando Russo

"Scrivo canzoni anche per difendere e sostenere l'Italia, i suoi lavoratori e le sue lavoratrici, le sue aziende. Ora firmo per sostenere Alitalia e la sua nazionalizzazione".
Francesco Basso Audio Resistenza

" Ma è mai possibile che l'Italia debba sempre essere terra di conquista da parte dello straniero?
Marcella Fontana

".... ero ( e malgrado tutto lo sono ancora!!) orgoglioso di questa compagnia"
Enrico Corali

"Sto firmando perché i sacrifici di chi lavora siano riconosciuti e finalmente il buon lavoro in questo paese sia garantito e protetto".
Alessandro Cataldo

"Alitalia è l'Italia. Deve essere nazionalizzata e si devono riprendere le rotte sulle Capitali mondiali. Per andare a Washington non c è nessun volo Alitalia da Roma!!! L'Alitalia è quella che sotto le bombe di mortaio atterrava a Mogadiscio.....con il tricolore sulla coda. Questi sono gli uomini e le donne di Alitalia".
Fortunato di Marzio

"Una grande linea aerea fa grande un Paese".
Massimo Tartaglia

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