[ 2 dicembre 2017 ]
Cancellata la seconda assemblea del Brancaccio, prevista per il 18 novembre, il gruppo napoletano Je So' Pazzo ha preso la palla al balzo per riunire, lo stesso giorno, quelli che essi stessi han chiamato "l'esercito dei sognatori".
La proposta che i ragazzi napoletani, non senza intelligenza, hanno messo sul tavolo era chiara: costruire una lista elettorale la quale non usasse più i simboli del tradizionale antagonismo d'estrema sinistra, che sapesse parlare alla grande maggioranza dei cittadini maciullati dalla crisi sistemica. In poche parole: una lista populista di sinistra. Il grido di battaglia proposto è stato, non a caso, "potere al popolo".
Chissà, ci siamo detti, che proprio da quel di Napoli, anche grazie alla semina di De Magistris, non arrivi la resipiscenza tanto attesa di una sinistra incartapecorita e abbarbicata alla vetusta iconografia identitaria. Chissà, ci siamo detti, che non si recepisca finalmente la lezione d'Oltralpe di France Insoumise.
L'inferno, tuttavia, è lastricato di buone intenzioni. Detto in altri termini: accettabile il punto di partenza, non è detto che lo sia il punto d'arrivo.
Cos'è infatti accaduto all'assemblea del 18 dicembre? Che mentre di "popolo" ce n'era poco, folta era la schiera dell'estrema sinistra organizzata: Rifondazione, il Partito Comunista Italiano, i rimasugli dell'Altra Europa con Tsipras, Sinistra Anticapitalista ed Eurostop, ecc. La qual cosa, beninteso, non è un male di per sé. L'unità è cosa buona e giusta, a patto che certi endorsement non causino uno snaturamento dei contenuti e del profilo dell'impresa. Come suona la massima: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.
L'impressione che abbiamo ricavato dall'assemblea non faceva dunque sperare niente di buono. Sull'evento veniva infatti posta una pesante ipoteca. Consapevoli della propria insufficienza, che costruire una lista elettorale a livello nazionale non è cosa facile —prima ancora che centinaia di candidati c'è bisogno di migliaia di attivisti che portino avanti la raccolta delle firme e la campagna elettorale— i promotori dell'assemblea hanno fatto buon viso a cattivo gioco.
Consapevoli delle insidie sul percorso e del rischio di uno snaturamento della loro proposta (che alla fine venga cioè fuori una lista di sinistra-sinistra) i ragazzi napoletani hanno pensato bene di, come si dice, "mettere i paletti", indicando quella che per essi dovrebbe essere la base politico-programmatica della lista in questione. Hanno così meritoriamente pubblicato sul loro sito un documento dal titolo POTERE AL POPOLO! UNA PROPOSTA DI PROGRAMMA.
Ora è quindi possibile dare un primo, circostanziato giudizio, dell'iniziativa. Certo, modifiche in corso d'opera saranno possibili. Si è già aperto il conciliabolo, il negoziato politico per limare la piattaforma —ogni componente cercherà di inserire questo o quel punto "qualificante"—, tendiamo tuttavia ad escludere che la sostanza ed il profilo possano cambiare. [1]
Ahinoi, il nostro giudizio su questo documento non è positivo. Vorremmo sbagliarci ma si finirà per dare vita ad una lista condannata al minoritarismo politico, che non solo non supererà lo sbarramento del 3% previsto dalla nuova legge elettorale ma, quel che è più grave, non offre la base necessaria per costruire una nuova forza popolare di massa che punti a fare uscire il nostro Paese dal marasma in cui chi comanda l'ha gettato.
Nella importante premessa al documento leggiamo:
«In queste pagine abbiamo provato a sintetizzare i contenuti espressi dalle mobilitazioni degli ultimi dieci anni di crisi (...). Di tutte queste mobilitazioni abbiamo registrato le voci all'assemblea del 18/11 a Roma, dove decine di interventi, da più parti d'Italia, hanno raccontato esperienze di resistenza, partecipazione, attivismo, lotta; abbiamo provato a costruire un programma minimo che le tenga dentro e le connetta tutte.
Abbiamo voluto scrivere un testo breve e incisivo perché crediamo che non ci serva un lunghissimo elenco di promesse e proposte, ma pochi punti forti su cui in tanti possiamo continuare a impegnarci con l’obiettivo del protagonismo delle classi popolari».
La prima cosa che salta agli occhi è la distanza tra le intenzioni degli autori e il prodotto finale. Il documento non è affatto né "breve" né "incisivo e, peggio ancora, è proprio una gragnola di obbiettivi, un'affastellata lista della spesa di riforme sociali. Abbiamo fatto il conto: ci sono la bellezza di 67 obbiettivi (!) da conquistare, che vanno dall'attuazione della Costituzione ad una nuova politica dei rifiuti. Obbiettivi e riforme sbagliati? Per niente, sulla carta quasi tutto giusto. Allora, vi chiederete, cos'è che non va?
Non va l'astrattismo politico del tutto. Il particolare è confuso col generale; la tattica messa davanti alla strategia. Mancano un giudizio sulla crisi sistemica e dunque una critica in profondità dei processi di globalizzazione (affiora anzi, l'idea che la globalizzazione sarebbe buona cosa se fosse "dal basso"); sfugge chi sia il nemico fondamentale del popolo e dunque quelli secondari; la critica dell'Unione europea risulta fragile e superficiale (la moneta unica non è nemmeno menzionata); del tutto assente la dimensione nazionale della battaglia sociale e politica (rientra anzi dalla finestra l'europeismo quando si invoca, come orizzonte di riferimento, la ricostruzione di un aleatorio "spazio europeo"); del tutto irreperibile il ragionamento sul governo del Paese, sul fatto che solo con un governo popolare d'emergenza il Paese potrà uscire dal marasma; assente perciò ogni discorso sul blocco sociale e le eventuali alleanze politico-sociali per attuare le trasformazioni necessarie — di passata, chi voglia capire come la pensiamo, vada al Manifesto della C.L.N. ed al suo Decalogo.
Insomma, a fronte di una bulimia della dimensione sociale, abbiamo una specie di anoressia politica, una imperdonabile noncuranza del Politico, ovvero della centralità del potere politico e statuale.
QUALE POPOLO, QUALE POTERE POPOLARE?
Non è vero, ci si risponderà, nel documento è posta con forza la questione del "potere popolare". Vero, ma andiamo a leggere cosa i nostri intendono per "potere popolare".
«Tutti i punti precedenti sono strettamente intrecciati con la questione centrale, la necessità di costruire il potere popolare. Per noi potere al popolo significa restituire alle classi popolari il controllo sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza; significa realizzare la democrazia nel suo senso vero e originario.
Per arrivarci abbiamo bisogno di fare dei passaggi intermedi e, soprattutto, di costruire e sperimentare un metodo: quello che noi – ma non solo noi – abbiamo provato a mettere in campo lo abbiamo chiamato controllo popolare. Il controllo popolare è, per noi, una palestra dove le classi popolari si abituano a esercitare il potere di decidere, autogovernarsi e autodeterminarsi, riprendendo innanzitutto confidenza con le istituzioni e i meccanismi che le governano».
Quindi "costruire potere popolare" sarebbe un "metodo", che consiste essenzialmente nel "prendere confidenza con le istituzioni e i meccanismi che le governano"; nel controllo, da parte di chi sta in basso, delle scelte di chi sta in alto, una "palestra dove le classi popolari si abituano ad esercitare il potere". Vero, ci sono molte dimensioni del "potere": si va dal condominio, al caseggiato, al quartiere, all'azienda in cui sui lavora, alla città. Ma in cima a tutto, com'è evidente, c'è il potere dello Stato. Giusto che i cittadini abbiano la facoltà di autoamministrarsi democraticamente, di "allenarsi" a governare partendo dai livelli sociali più elementari, ma tutto questo "allenamento" sarebbe vano ove non sia finalizzato a strappare il governo e le leve decisionali dalle mani della plutocrazia e delle sue élite politiche. Da qui discende la centralità della suprema dimensione politica, quella per il potere statuale. Dimensione da cui dipendono, a scendere, tutte le altre, ad essa subordinate. Come diamo infatti lavoro ai disoccupati senza un'efficace politica statale? Come usciamo dal marasma mercatista senza un ruolo economico attivo dello Stato? Come riorientiamo, in una prospettiva ecologica, produzione e consumi senza una programmazione statuale di lungo periodo? Come realizzare una politica economica senza sovranità monetaria?
Ed eccoci giunti al nodo dei nodi che caratterizza il momento attuale: dato che oggi queste leve risiedono in gran parte in potenti organismi sovranazionali tecnocratici, quali quelli dell'Unione europea, emerge la dimensione nazionale della battaglia politica: la necessità di uscire dall'Unione, di riconsegnare al Paese piena sovranità, sovranità senza la quale non c'è democrazia, non c'è libertà, non c'è giustizia sociale. Sovranità nazionale senza la quale la tanto evocata "attuazione della Costituzione" resta uno slogan vuoto e il "potere popolare" diventa una ingannevole chimera. Fino a prova contraria non c'è mai stata democrazia né tantomeno "potere popolare" in entità imperiali e imperialistiche. Non è un caso che questa "parolina", sovranità, sia del tutto assente dal documento, a dimostrazione che la "questione nazionale" resta un insuperabile tabù.
Vorremmo quindi chiedere ai nostri cosa essi intendano per "popolo". Il sospetto è che abbiano in mente lo spappolato ectoplasma "moltitudinario" partorito dai processi di globalizzazione. E allora non ci siamo, perché sulla "moltitudine" globalizzata non avremo alcun soggetto reale, in quanto "popolo" significa una comunità con radici storiche, che a sua volta sta dentro un demos determinato, e questi non è altro che lo stato nazione — ovvero proprio quella dimensione politica che le potenze del capitale sovranazionalizzato e deterritorializzato vogliono smembrare. E proprio per questo assalto globalità, la funzione del soggetto Politico è cruciale, poiché qui si tratta di ricostruire un popolo, ridargli memoria, identità, missione storica.
MUTUALISMO E ANARCHISMO
Ci sono due tradizioni e due visioni alle spalle di questo tabù, che spesso risultano complementari l'una all'altra: quella cosmopolitica della sinistra snob, e quella internazionalista nella sua versione anarchica. L'anarchismo, a ben vedere, è la fonte da cui sgorga il discorso di JE SO' PAZZO.
Nel documento si legge:
«10. MUTUALISMO, SOLIDARIETÀ E POTERE POPOLARE
Le condizioni di vita delle classi popolari peggiorano sempre di più, questo deterioramento riguarda la salute, l'istruzione, ma anche più semplicemente la possibilità di godere di tempo liberato da dedicare ad uno sport, un hobby, etc. In quest’ottica mutualismo e solidarietà non sono semplicemente un modo per rendere un servizio, ma una forma di organizzazione della resistenza all'attacco dei ricchi e potenti; un metodo per dimostrare nella pratica che è possibile, con poco, ottenere ciò che ci negano (salute, istruzione, sport, cultura); una forma per rispondere, con la solidarietà, lo scambio e la condivisione, al razzismo, alla paura e alla sfiducia che altrimenti rischiano di dilagare. Le reti solidali e di mutualismo sono soprattutto una scuola di autorganizzazione delle masse, attraverso la quale è possibile fare inchiesta sociale, individuare i bisogni reali, elaborare collettivamente soluzioni, organizzare percorsi di lotta, controllare dal basso sprechi di denaro pubblico e corruzione».
Cosa c'è di male, ci direte, nel "mutualismo" sociale, nel promuovere reti solidali di resistenza di chi sta in basso? C'è di male che se il mutualismo, da pratica strumentale ad una strategica politica di lotta per il potere, diventa LA strategia politica, non si va da nessuna parte.
A chi non è nato ieri non sfugge che questo fare del "mutualismo" una strategia ci riporta al padre del sindacalismo anti-politico, anti-statalista e mutualista, l'anarchico francese P.J. Proudhon. Più recentemente ci conduce a SYRIZA che, quand'era all'opposizione, fece delle pratiche mutualiste e assistenziali "dal basso" la principale leva per giungere al potere. Come è andata a finire lo sappiamo tutti: una volta al governo il mutualismo è andato a farsi friggere —in Grecia lo fa Alba Dorata, come qui da noi Casa Pound— visto che SYRIZA ha applicato ed applica con estrema diligenza le misure draconiane chieste dalla troika.
Va bene sbarazzarsi del simbolismo identitario ed ideologico della crepuscolare sinistra comunista, ma sbarazzarsi di Marx per tornare a Proudhon, per di più in una versione minimalista ed edulcorata, questo, in punto di
P.J. Proudhon
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teoria, è difficile da accettare. C'era un tempo in cui a sinistra si vaticinava un "ritorno a Marx". Adesso che Marx è considerato un cane morto, si riscoprono gli ittiosauri del socialismo utopistico che Marx, con la sua analisi del modo d'essere e delle leggi economiche del capitalismo, pensava di aver seppellito.
Ma sorvoliamo sulla teoria "astratta" e veniamo alla pratica. Davvero si pensa di potere far fronte all'offensiva a tutto campo del nemico — la potentissima borghesia neliberista che, trans-nazionalmente consociata, detiene tutte le principali leve del potere economico, finanziario, politico e militare globale—, coi pannicelli caldi del mutualismo gradualista? Con il sindacalismo sociale municipalista?
Oggi, come ai tempi di Proudhon, si tratta di una colossale illusione, che finisce per fungere da variante ("dal basso") del più tradizionale riformismo di sinistra. I nostri pensano evidentemente, andando a pescare nelle origini mutualiste e sindacaliste del movimento operaio (non di quello italiano per la verità), ad un lungo e progressivo cammino, fatto di modifiche a dosi omeopatiche, fino a quando le reti di produzione, scambio e distribuzione mutualistici, non prenderanno il sopravvento et voilà, il capitalismo verrà soppiantato. Ma l'Italia e il suo popolo non hanno davanti questi tempi lunghi, né dovrebbero sperare che la strada del riscatto e della liberazione sia quella sopra descritta.
Esageriamo nel dire, visto che siamo in Italia, capitale del cattolicesimo mondiale, che non può esserci, su piano del mutualismo, competizione con l'assistenzialismo della Chiesa? Esageriamo nell'affermare che questo mutualismo sociale, collassati i meccanismi di welfare, svolgendo un ruolo di supplenza dello Stato, finisce per essere funzionale al sistema neoliberista?
In conclusione che abbiamo? Abbiamo che JE SO' PAZZO ci propone sì la costruzione di un movimento populista, ma la versione che viene avanzata è irricevibile in quanto, sotto una verniciata di novità, si cela una versione edulcorata del vecchio mutualismo di matrice anarco-sindacalista, col suo rifiuto dello Stato, della nazione quindi, in ultima istanza, della politica. Per cui, se l'obbiettivo era quello di andare incontro alla grande maggioranza dei cittadini delle più diverse classi sociali maciullati dalla crisi sistemica, cercando la via per una connessione emotiva col popolo, esso è stato palesemente mancato.
NOTE
[1] L'esito finale sarà deciso dal negoziato più spinoso e successivo, quello sulle candidature nei collegi uninominali e, soprattutto sui capilista dei plurinominali. Non si sa mai: certi matrimoni si rompono già sull'altare, tanto più se sono di gruppo —"molti i chiamati, pochi gli eletti".
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