Premessa
Più le urne si avvicinano, più la confusione aumenta. Di tutto si discute fuorché di un banale dettaglio: il destino del Paese. Destino che rischia di decidersi a Bruxelles o, peggio ancora, a Berlino. Ma di questo — lo nota anche Federico Fubini sul Corsera — non c'è traccia nel cosiddetto «dibattito politico».
La cosa non è stupefacente, vista l'antica tradizione di parlar d'altro per schivare i problemi veri. Stavolta però il macigno è più grande del solito, perché alla fine l'Italia ne uscirà o come stato nuovamente sovrano, o come colonia definitivamente asservita all'Euro-Germania. Ma di tutto ciò parleremo in un prossimo articolo.
Qui ci limitiamo ad osservare l'impressionante accumulo di paradossi che si vanno producendo in vista delle imminenti elezioni politiche. Il fenomeno è interessante proprio perché, almeno a giudizio di chi scrive, esso discende largamente proprio dalla gigantesca fuga dalla realtà — di certo dalle responsabilità — di un'intera classe dirigente. E' questa una tendenza di lunga durata, ma certo un bilancio dei disastri prodotti dalla Seconda Repubblica non guasterebbe.
In ogni caso la realtà dei fatti si va incaricando di mettere in ridicolo i protagonisti — praticamente tutti — di questa strana stagione politica.
Paradosso n° 1: la legge elettorale
Pensata, voluta ed imposta al parlamento per dare concretezza al progetto di un nuovo governo Renzi-Berlusconi, oggi questa legge sembra poter dare la vittoria alla coalizione di destra. Certo, non sarà facile, visto che ci vorrà almeno il 40% dei seggi assegnati con la proporzionale ed il 70% di quelli attribuiti nei collegi uninominali. Ma di sicuro non vincerà il Pd, a picco nei sondaggi (l'ultimo gli dà il 24,4%), con un leader che ormai piace solo al suo ristretto clan, con una coalizione che a definirla tale viene solo da ridere.
E viene da ridere a pensare allo straordinario acume politico di chi quella legge l'ha scritta, convinto di aver così congegnato la furbata del secolo. Vien da ridere a pensare all'«uomo solo al comando», adesso rimasto soltanto «solo», abbandonato perfino da quegli insuperabili esempi di coraggio e maestria che corrispondono ai nomi di Angelino Alfano e Giuliano Pisapia. «Non tutte le ciambelle riescono col buco», l'abbiamo detto più volte a proposito della nuova legge elettorale. Certo, nessuno poteva pensare che il patatrac piddino si rivelasse così presto, ma questi — si sa — sono tempi assai veloci.
Paradosso n° 2: l'élite
Ma cosa vogliono ai piani alti del potere? Da quelle parti hanno appoggiato il fiorentino per tre anni. Gli hanno messo al servizio i loro media per vincere il referendum costituzionale. L'hanno invece perso, e lì hanno capito che Renzi era ormai bruciato. Da allora mirano alla strategia del caos, visto che un esito elettorale incapace di produrre un governo potrebbe riaprire la strada ad un «governo del presidente», cioè — più prosaicamente — ad un esecutivo del tutto prono ai loro interessi.
Lorsignori vogliono sbarrare la strada ad M5S, non perché ne abbiano paura, ma perché ne comprendono la contraddittoria natura di contenitore dell'indignazione popolare. Neppure l'osceno inginocchiarsi del Di Maio di fronte ad ogni potere costituito, nazionale come internazionale, può rassicurarli. Magari in futuro si vedrà, ma per ora meglio non correre rischi. Ma lorsignori non vogliono neppure una vittoria della destra: troppo peserebbe il «populista» Salvini, troppe sarebbero le promesse da onorare.
Il problema è che per l'élite anche Renzi non va più bene. Troppo preso dalla sua carriera politica, mentre per loro contano solo i propri interessi di classe. Quel difetto potevano accettarlo finché vinceva, ma ora che è in declino vogliono mandarlo a casa. Hanno preso perciò a colpirlo. I media amici sono diventati nemici, mentre i nemici del fiorentino (vedi la congrega Mdp-Liberi e Uguali e soci) godono adesso di buona stampa.
Ma così facendo — ecco il paradosso — è proprio la destra che rischia di vincere. Come ne verranno a capo non si sa. Certo, lorsignori vorrebbero colpire Renzi ma non il Pd, visto che è quest'ultimo il vero cardine politico del loro sistema. Ma come fare se Renzi e Pd sono ormai la stessa cosa? Insomma, in quanto a strategia, neppure il blocco dominante è messo troppo bene. E questo non può che farci piacere.
Paradosso n° 3: la destra, una coalizione nata per poi dividersi subito dopo il voto
A destra non hanno mai pensato di arrivare al 50%+1 dei seggi. Non a caso la coalizione messa in piedi non ha né un programma, né tantomeno un leader condiviso. Il perché è presto detto: ad ognuno così conveniva. Berlusconi e Salvini hanno innanzitutto pensato a fare il pieno dei seggi nell'uninominale, poi il primo li avrebbe utilizzati per dar manforte a Renzi, il secondo per rafforzarsi come grande oppositore del nuovo programmato inciucio.
Senza dubbio una coalizione assai paradossale. Ma adesso il paradosso è che la mancata vittoria non è più così certa. Che fare allora nel caso si ottenesse la maggioranza? Ancora non si sa, ma trovare la quadra non sembra così facile. Governare l'Italia non è come amministrare il Veneto o la Lombardia. Intanto andranno avanti così, sfruttando i vantaggi che la legge elettorale gli concede, poi si vedrà. Ma a occhio e croce né Salvini né Berlusconi auspicano davvero una vittoria della loro coalizione. Se non è un paradosso questo!
Paradosso n° 4: il Pd e il suo tesoretto dei collegi uninominali
Chi conosce il modo di ragionare dei maggiorenti di Piddinia City non può avere dubbi: da quelle parti si punta tutto sui collegi uninominali. O, almeno, si puntava. Perché il problema è semplice: nell'uninominale si avvantaggia chi ha candidati più forti e conosciuti, specie se appartengono ai due schieramenti sui quali si polarizza il voto. Ora il Pd ha sicuramente i candidati più conosciuti, ma di questi tempi non è detto che essere conosciuti sia sufficiente per essere forti elettoralmente. E questo è il primo problema per Renzi. Ma è il secondo quello più grave, ed esso consiste nel fatto che non è più certo che uno dei due poli su tre sui quali si concentrerà il voto sarà il Pd.
Vediamo meglio questa decisiva questione. Esiste certamente un 80% dell'elettorato che non risente dell'effetto polarizzazione. Questo segmento maggioritario non è scalfibile dalle dinamiche che qui stiamo considerando. Dunque, chi oggi voterebbe Pd, lo voterà anche a marzo; idem per l'elettore pentastellato, così pure per quello di destra e così via. Ma esiste il restante 20%, che invece può risentirne eccome. Ed è quel 20% a risultare decisivo nel gioco della polarizzazione.
Dal 2013 la novità è che il sistema non è più bipolare, bensì tripolare. Ma il meccanismo dell'uninominale tenderà — magari in maniera differenziata nelle diverse aree del Paese — a bipolarizzare almeno in parte il consenso elettorale. Del resto è proprio questo lo scopo sistemico dell'uninominale.
Ma tra chi avverrà la polarizzazione? Nell'estate 2016, dopo le amministrative ed in vista del referendum di dicembre, tutti avrebbero scommesso su uno scontro tra Pd e M5S. Pochi mesi fa, mentre iniziava il percorso che porterà al Rosatellum, tutti credevano ad una polarizzazione tra Pd e destra. Ma oggi? Secondo gli ultimi sondaggi potremmo forse assistere ad una polarizzazione imprevista: quella tra destra (comunque in netto vantaggio) e M5S.
Certo, i sondaggi non vanno presi per oro colato, e personalmente sono portato a pensare che con le candidature qualcosa il Pd recupererà comunque, ma se davvero scattasse nell'immaginario collettivo l'idea della centralità dello scontro destra-M5S, allora per il Pd sarebbe la fine. Non una semplice sconfitta, bensì un'autentica disfatta. E — ecco il possibile paradosso — il cuore della disfatta sarebbe a quel punto proprio in quei collegi uninominali che sembravano il grande tesoretto messo in cassaforte dai ladri di voti con base al Nazareno!
Paradosso n° 5: il M5S tra grigiore e possibile fortuna
Se il paradosso n° 4 dovesse davvero concretizzarsi, ecco che ne porterebbe immediatamente con sé un altro: quello di dare nuova vitalità ad una forza che sembra voler fare di tutto per sprofondare nel più mesto grigiore, ovvero il Movimento Cinque Stelle.
Con la direzione Di Maio, il M5S si presenta ormai come una forza neo-democristiana. Una forza che non dice di no a nessuno per pronunciare al contempo un gigantesco sì all'establishment. La sequenza degli atti che rende ormai inequivocabile questo tragitto è talmente nota da non dover essere qui ricordata.
Questo nuovo posizionamento, lungi dal far acquisire nuovi consensi — secondo la logica della «rassicurazione» dei cosiddetti «moderati» — porterebbe di per sé ad un sicuro quanto meritato declino di questa formazione. Ma, c'è un ma che dobbiamo considerare. Ed è appunto quel ma legato alla crisi sempre più evidente del Pd. Se il partito di Renzi dovesse apparire come battuto in partenza, chi assumerebbe il ruolo dell'alternativa alla destra se non M5S? Ecco un altro scenario non previsto, ma ad oggi non impossibile. Un nuovo paradosso, figlio della crisi verticale della classe dirigente e dell'intero sistema politico nazionale.
Conclusioni
Quali conclusioni possiamo trarre da quanto detto fin qui?
La prima conclusione è che i giochi non sono ancora fatti, che l'esito elettorale non è scontato.
La seconda conclusione è che, comunque vada, il quadro post-elettorale sarà quanto mai instabile.
La terza conclusione è che così come esiste una grande difficoltà delle forze antisistemiche, esiste pure (e non è certo in via di risoluzione) una profonda crisi politica delle forze dominanti.
La quarta conclusione è che l'alternativa allo stato di cose presente va costruita interamente al di fuori di questo strano tripartitismo.
La quinta conclusione è che la necessità di portare sulla scheda elettorale, sotto il simbolo della «Lista del Popolo», le ragioni del sovranismo costituzionale ne esce totalmente confermata. Altro non fosse che per l'esigenza di rimettere al centro il tema del destino del Paese cui accennavamo all'inizio.
Per una lista di questo tipo — che è cosa del tutto diversa dalla mesta e confusa riproposizione della solita lista della sinistra sinistrata — lo spazio c'è ed è grande. Ma l'impresa è tutt'altro che facile, basti pensare ad una raccolta delle firme (da cui sono esentate le forze già presenti in parlamento) da concentrare praticamente in poco più di due settimane a gennaio.
L'impresa è difficile, ma provarci con il massimo impegno e con la massima serietà è certamente un tassello sulla strada che indichiamo da tempo. Quella strada che punta ad unire tutti i soggetti interessati a mettere finalmente in campo una forza popolare e patriottica, in grado di muovere i primi passi verso un concreto percorso di liberazione nazionale. E' la strada già segnalata simbolicamente nell'acronimo C.L.N. che caratterizza la Confederazione per la Liberazione Nazionale.
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