ELEZIONI 2018: LA PROPOSTA DELLA C.L.N.

4.4.17

LA SOVRANITÀ È DI DESTRA O DI SINISTRA? di Norberto Fragiacomo

Ecco un bell’esempio di domanda priva di senso, per quanto posta di frequente: di per sé la sovranità è “solo” uno dei tre elementi costitutivi dello Stato, di qualsiasi Stato, sia esso imperialista o “popolare” (gli altri due sono, com’è noto, popolo e territorio). Va intesa nella duplice accezione di sovranità interna ed esterna, cioè come capacità dell’Ente, da un lato, di imporre agli associati il rispetto delle regole di convivenza e, dall’altro, di elaborare scelte politiche autonome, non determinate da potentati stranieri[1]. 

E’ un concetto che nulla ha a che spartire con quelli di razzismo, sciovinismo o imperialismo, sebbene a volte venga declinato in termini aggressivi ed espansionistici: riconquistare la sovranità era fra gli obiettivi primari dei partigiani italiani dopo il ’43, conservarla esigenza vitale per l’URSS appena generata dalla Rivoluzione d’Ottobre, di cui quest’anno ricorrerà il centesimo anniversario, ottenerla il fine degli innumerevoli fronti di liberazione nazionale novecenteschi, le cui lotte sono sempre state correttamente incoraggiate dalla sinistra marxista dell’epoca.

Affermare dunque che il c.d. “sovranismo” sia fisiologicamente un fenomeno di destra è una solenne corbelleria, sostenuta peraltro dai media per due ragioni, la prima fattuale e la seconda propagandistica. Vediamole: è innegabile che oggi, in giro per il mondo, il tema della difesa della sovranità nazionale sia svolto principalmente da soggetti politici reazionari e/o nazionalisti, con uno spettro di posizioni che va dal criptonazismo muscolare di Alba Dorata alla sintesi impossibile tentata dalla Le Pen nei suoi programmi elettorali, dal sapore vagamente “rautiano”. 

Esistono sovranisti di sinistra, ma la loro influenza sulle masse è – ad essere ottimisti – da verificare. Associare lo spettro della sovranità a quello di un “fascismo” dagli incerti contorni, inoltre, conviene, perché risparmia al denunciante la fatica del dibattito sul merito delle questioni e inculca nel più scafato fra i lettori o spettatori un sentimento di vergogna: come potrei mai votare per gente simile? E’ su siffatti meccanismi psicologici che conta l’insidiosissimo Macron per imporsi in un eventuale ballottaggio, oltre che sulla tradizionale inettitudine della sinistra ad osservare la realtà per quella che è (e non per quella che gradiremmo fosse).

L’Espresso, che è una rivista di sistema (vale a dire un foglio stampato dal Capitale) molto ben fatta, conduce il gioco con maestria, etichettando ogni seria opposizione a NATO e UE non dichiaratamente di destra come “rossobrunismo”[2], ma di questi artifizi e raggiri non meriterebbe parlare: molto più utile è interrogarsi sul possibile punto d’approdo di una navicella sovranista ipoteticamente pilotata da compagni onesti e disinteressati.

Diego Fusaro, che dei sovranisti è uno dei principali ispiratori (pur non riconoscendosi nella definizione), sostiene che, oggidì, l’unico soggetto rivoluzionario rimastoci è per l’appunto lo Stato nazionale, in grado con le sue forze di rompere la gabbia d’acciaio forgiata intorno a noi dall’oligarchia finanziaria globalizzata. Ho semplificato all’eccesso, ma l’impostazione è questa. Vista l’apparente assenza di alternative, molti sono tentati di seguire tale strada: sarà accidentata, opinano, ma perlomeno esiste. 

A ben vedere, tuttavia, si tratta di una scoscesa via alpinistica, da percorrere fra l’altro in cordata con compagni di ascensione poco affidabili: prima di poter “trasformare” lo Stato è necessario conquistarselo, evidentemente con metodo democratico. Tocca insomma accompagnarsi con chiunque si opponga al ventriloquio delle èlite, sia egli di destra, di centro, di sopra o di sotto. Diamo per scontato (non lo è per nulla) che certi proclami siano sinceri; ipotizziamo addirittura che, malgrado le azioni di guerriglia di media e istituzioni internazionali, l’operazione “accozzaglia” vada a buon fine, ottenendo l’avallo delle urne. Che succederebbe a questo punto? Le gabbie, d’acciaio o meno che siano, non si rompono con gli abracadabra: ai buoni propositi dovrebbero far seguito azioni concrete. L’uscita dall’euro o il suo affiancamento con una moneta nazionale, la denuncia dei trattati europei, misure restrittive sulle banche e sulla libera circolazione dei capitali, magari una chiusura temporanea delle frontiere – più, in generale, un deciso cambiamento di strategia in politica estera e nella gestione finanziaria produrrebbero un pesante contraccolpo sulle relazioni internazionali, e immediate reazioni da parte dei mercati e delle potenze “amiche”, USA in primis (a meno che Trump non faccia davvero il Monroe, eventualità alquanto inverosimile). Chi discetta di “risoluzioni consensuali” ha speso troppe ore sui testi di diritto, fino a fare di quella materia (affascinante sovrastruttura) un surrogato della realtà, come capitò al padre del protagonista de L’uomo senza qualità di Musil.

Mi si potrebbe obiettare che la Brexit è stata sostanzialmente indolore: vero, ma la Gran Bretagna era già ai margini dell’Unione, più ospite riverito che membro, e in ogni caso la sua fedeltà a NATO e Capitale finanziario era e resta a tutta prova. Potrebbe finire ben diversamente: si pensi al presidente guatemalteco Árbenz, scalzato dalla CIA per aver “osato spezzare il silenzio necessario alle banane della United Fruit, e che era comunista perché voleva che ogni bambino del Guatemala avesse un paio di scarpe[3]”, ad Allende assassinato, a Mossadeq, ai partigiani greci, e – perché no? – all’onesto Dubcek. L’esito meno inverosimile sarebbe tuttavia una ritirata con piroetta stile Tsipras: scusate, elettori cari, avevamo scherzato!

Il problema sta nel fatto che le multinazionali contemporanee, ampiamente finanziarizzate, detengono oltre ad un impressionante potere economico anche quello politico-militare, impersonato dall’Alleanza atlantica a guida americana: chi immagina Donald Trump al vertice della piramide s’illude due volte, perché sopravvaluta tanto l’uomo (un guitto megalomane, comunque meno pernicioso di Hillary Clinton) quanto l’importanza del ruolo rivestito. Certo andrebbe meglio se il nostro antagonista fosse la Germania, che è sì un nano militare ma, per nostra doppia sfortuna, nulla più che un ingordo e arrogante kapò di provincia.

Ammettiamo – ancora una volta, per assurdo – che i mercati, impressionati dalla baldanza del variegato fronte di liberazione, rinuncino a un devastante contrattacco e concedano al Paese un commodus discessus: in parole povere, che acconsentano all’auspicata riappropriazione di sovranità. Si tratterebbe in ogni caso di una concessione, vista la disparità di forze in campo – pertanto, il neonato “soggetto rivoluzionario” sarebbe costretto, nell’immediato, a muoversi con estrema prudenza, evitando di tirare troppo la corda. I piani verrebbero annacquati, la fuoriuscita dal sistema globale sarebbe, per così dire, discreta. Ma a questo punto un altro, decisivo nodo verrebbe al pettine: come riorganizzare la società e i rapporti di produzione/distribuzione? A meno che, nel frattempo, una sorta di miracolo avesse reso il sovranismo di sinistra preponderante, si tratterebbe di trovare un compromesso fra le esigenze di padroni e lavoratori – esigenze che, per motivi su cui è inutile soffermarsi, sono sostanzialmente opposte. Non nego che fra i titolari di aziende vi siano anche oggi autentici filantropi, ma le notizie di imprenditori che regalano la ditta ai dipendenti ecc. trovano spazio sui giornali proprio per la loro natura di casi eccezionali. E’ come la storiella dell’uomo che morde il cane: il contrario è la norma, perciò non suscita interesse né scalpore.


Ci assicurano che l’uovo di Colombo sia la fantomatica “alleanza dei produttori”, una riedizione aggiornata del vecchio corporativismo fascista. Sarebbe scorretto sostenere che il fascismo abbia peggiorato la condizione dei lavoratori rispetto all’epoca liberale (al contrario, il regime qualcosa di buono lo fece: dalle opere di bonifica esaltate in Canale Mussolini alla previdenza, dall’assistenza sociale alle colonie marine), ma il ripudio mussoliniano della lotta di classe beneficiò esclusivamente gli imprenditori, che durante il ventennio poterono disporre di manodopera docile e a buon mercato. Un patto leonino, d’altra parte, è l’esito inevitabile di qualsiasi trattativa fra diseguali. In questa cornice il padronato nazionale appoggerebbe volentieri politiche autarchiche, che creerebbero ulteriori attriti con altri Paesi, specie quelli di dimensioni e caratteristiche paragonabili al nostro. Tentativi di penetrare in mercati periferici per smaltire il surplus di produzione acuirebbero viepiù i contrasti: governanti in ambasce coglierebbero il destro per sgravarsi da ogni responsabilità incolpando della precaria situazione economica delle masse lavoratrici oscure macchinazioni di potenze esterne.

In estrema sintesi: dovesse scampare a tre procelle via via più intense (ricordiamole: gli ostacoli sul cammino di un amalgama tutto sommato contro natura, una campagna elettorale decisamente in salita, la controffensiva del mondo economico-finanziario occidentale), la nave sovranista rischierebbe di naufragare sugli scogli di un assetto senz’altro nuovo, ma connotato da più di qualche somiglianza con il fascismo storico novecentesco. Che ruolo potrebbero ritagliarsi in questo dramma i nostri sovranisti di sinistra? A mio parere, uno non troppo dissimile da quello interpretato, durante il regime, dai vari Cianetti, Rossoni ecc. – e questo non per volontà personale, ma per forza di cose.

Quelli fin qui espressi sono i miei dubbi, più che le mie certezze. Ai sovranisti italiani –perlomeno a quelli che ho avuto il piacere e, in qualche caso, l’onore di conoscere - riconosco però un grosso merito, quello di aver evidenziato costantemente e con forza la dimensione anzitutto nazionale della lotta. Non sembra una grande scoperta, perché tutte le rivoluzioni del passato (da quella francese a quella russa) sono deflagrate in singoli Paesi, ma in fondo è una rivincita della concretezza sull’astrazione che rincuora. Inoltre i sovranisti non
III. Forum europeo No Euro. Chianciano terme, settembre 2016
rinunciano affatto all’internazionalismo proletario (chi è stato a Chianciano o ad Assisi può testimoniarlo): semplicemente ritengono che un vasto incendio purificatore non scoppi ovunque nello stesso momento, suscitato da un colpo di bacchetta magica o da un pio desiderio, ma si origini da singoli focolai localizzati in diversi punti del bosco, complice il vento favorevole. Come ho già scritto in L’ultima Carta contro la barbarie, se si vuole rovesciare il paradigma occorre acquisire la capacità di coordinare a livello continentale specifiche lotte locali e nazionali, che vengano avvertite come necessarie dai popoli che le combattono. In Italia avremmo una Costituzione da mondare dalle sporcizie del 2012, e soprattutto da attuare: come compito mi pare entusiasmante.

Al netto delle chiacchiere giornalistiche, l’articolo 1 della nostra Carta Fondamentale recita che la sovranità appartiene al Popolo: riprendercela è dunque un dovere giuridico e morale, non certo una pretesa “di destra”. Fondamentale è però scegliere con cura i compagni di strada: una “cobelligeranza” con forze reazionarie e nazionaliste conduce all’isolamento di un vicolo cieco, l’attivo coinvolgimento delle minoranze pensanti può invece portare a una rigenerazione del continente, nel pieno rispetto delle identità dei popoli che lo abitano – perché il Socialismo non è omologazione verso il basso o abbrutente massificazione, bensì eguaglianza di diritti da garantire a persone (e genti) diverse.

[1] Oppure “apolidi”, visto che negli ultimi decenni le corporations sono cresciute al punto da avere bilanci paragonabili a quelli degli Stati (il fenomeno non poteva ovviamente essere previsto dai costituzionalisti dei secoli passati).

[2] In sintesi: la c.d. sinistra antisistema viene tollerata finché si limita a contestare singoli aspetti del sistema, non la sua struttura fondamentale, arrendendosi dopo sfibranti dibattiti (si legga quanto scritto da Ugo Boghetta nel suo addio al PRC) all’affermata assenza di altre opzioni – rispetto alla UE, alla “democrazia” rappresentativa, all’appartenenza al blocco occidentale – e accettando la carità pelosa dei diritti civili. Chi esce invece dal “sacro recinto” viene immancabilmente squalificato e perseguito.

[3] R. KAPUSCINSKI, Cristo con il fucile in spalla, pag. 122.

*Fonte: Owenisti Giuliani

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