ELEZIONI 2018: LA PROPOSTA DELLA C.L.N.

21.4.18

La CLN sospende temporaneamente le attività

La CLN nacque all’indomani del referendum del 4 dicembre 2016. Sulla base di un’innovativa fisionomia confederativa essa si strutturava come contenitore pluralista di forze sovraniste costituzionali e patriottiche con l’obiettivo di mettere in campo un’azione politica sistematica contro la visione europeista, neoliberista e globalista dominante. La CLN riusciva in effetti a integrare e coinvolgere diverse realtà già presenti nel panorama italiano svolgendo diverse iniziative politiche e culturali.

Che il Paese fosse alle porte di una svolta, che vi fosse una maggioranza di cittadini non più prigioneri della narrazione dei dominanti è stato ampiamante dimostrato dalle elezioni del 4 marzo. Fu sulla base di questa consapevolezza che nel giugno 2017 nella CLN maturò la convinzione che fosse necessario costruire, in vista delle elezioni regionali siciliane del novembre e di quelle nazionali del marzo 2018, un polo elettorale indipendente e unitario del patriottismo costituzionale. Una minoranza contestò questa proposta e abbandonò la CLN.

Lanciato in settembre l’Appello “per un’Italia ribelle e sovrana” la CLN tentò in ogni modo, in vista del 4 marzo, di raggruppare forze per dare vita ad una lista che ponesse al centro la conquista della sovranità nazionale e l’applicazione della Costituzione. L’insuccesso di questi sforzi (che si aggiungeva al fallito tentativo di presentare una lista in Sicilia) spinse una parte ad abbandonare la CLN per aderire alla “Lista del Popolo”.

Ad un anno di distanza dalla sua fondazione dobbiamo prendere atto di non essere riusciti a mettere insieme un nucleo solido di forze che potessero convergere su un programma comune, superando le differenze e i personalismi politici in vista di un obiettivo che, a tutt’oggi, mantiene un grande potenziale.

Il terremoto elettorale del 4 marzo, proprio perché ha dimostrato che non esiste, ne' a sinistra ne' a destra, una forza popolare davvero alternativa che avesse chiari i punti fondamentali di uscita dall’euro e dall’Unione Europea e di attuazione di politiche pubbliche sovrane di intervento statale, è stata una occasione perduta per le minoranze del patriottismo costituzionale.

Alla luce di quanto sopra, poiché non sussistono al momento le condizioni di una sua azione efficace (sono nel frattempo scomparsi molti dei soggetti politici che si puntava a confederare), la CLN sospende temporaneamente le sue attività. Chi ne fa ancora parte, visto il momento particolarissimo in cui si trova il nostro Paese, continuerà a collaborare, dando priorità all’elaborazione di un pensiero e di modalità d’azione politica che siano al contempo costruttivamente alternativi all'attuale disegno socio economico dei dominanti e capaci di attivare e mobilitare nuove energie, guardando quindi al di là del perimetro del “sovranismo”.


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7.3.18

ASTENSIONE: PER LA CRONACA....

L’affluenza degli elettori al voto di domenica 4 marzo per rinnovare il Parlamento è stata del 72,9% per la Camera e appena più alta (72,99%) per il Senato. È stata l’affluenza più bassa per le elezioni politiche nella storia repubblicana del nostro Paese: nel 2013, quando si poteva votare anche il lunedì mattina, l’affluenza era arrivata a poco più del 75% e aveva portato il numero di votanti per la prima volta in Italia sotto l’80%. Nel 1948 si superava il 92%.

Gli italiani che avrebbero avuto il diritto di votare erano quest’anno 46.605.046 ma quelli che si sono effettivamente recati ai seggi sono stati appena meno di 34 milioni: 33.978.719. In altri termini, più di 12 milioni e mezzo di italiani sono rimasti a casa e non hanno votato.

Dei 34 milioni che hanno ritirato la scheda, più di 350 mila la hanno restituita (per il voto alla Camera) senza compilarla e in totale le schede che sono state annullate sono oltre un milione: gli italiani che in effetti non hanno votato sono dunque più di 13 milioni e mezzo. E quelli che hanno votato meno di 33 milioni.

Le percentuali sono molto diverse a seconda delle Regioni e al loro interno. Quest’anno il Veneto ha strappato di poco all’Emilia Romagna il primato della Regione con la più alta affluenza al voto: 78,8% contro 78,3%, ma cinque anni fa entrambe le Regioni erano al di sopra dell’80%. A Padova e Vicenza sono andate alle urne anche questa volta più di otto persone su dieci, come anche nella provincia di Bergamo, ma sono ormai eccezioni. In Lombardia la percentuale dei votanti si è fermata al 77%, in Piemonte si scende al 75%.

L’affluenza diminuisce spostandosi verso il Sud. Nel Lazio sfiora il 73%, con un calo di cinque punti negli ultimi cinque anni. In Campania si scende al 67,8, cioè solo due persone su tre votano mentre la terza rimane a casa, anche se la situazione è quasi uguale a quella del 2013.

Il record negativo spetta alla Sicilia, dove ha votato solo il 63% delle persone, e alla Calabria, dove si arriva al 63,5%. Nelle province di Agrigento e Caltanissetta la percentuale si abbassa attorno al 60% ma ci sono anche zone della Sicilia, come Palma di Montechiaro, Lampedusa e Linosa, dove la percentuale è già sotto il 50%: è andata a votare meno di una persona su due.

* Fonte: LA STAMPA

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26.2.18

AD UNA SETTIMANA DAL VOTO di Leonardo Mazzei



Tre scenari, uno peggiore dell'altro. 
Ma per fortuna tutti instabili...

La mia previsione per il 4 marzo resta quella di due settimane fa. Anzi, queste ultime battute della campagna elettorale mi fanno sembrare ancor più probabile una maggioranza assoluta - in seggi ovviamente, che in voti non se ne parla proprio - della coalizione di destra. Vittoria, che se non è ancora del tutto certa, è solo per le contraddizioni di quella coalizione e per la pittoresca condizione del suo leader zombie.

Se alla destra dovessero mancare i numeri, si passerebbe subito all'opzione numero due, quel governo Renzi-Berlusconi per il quale è stato concepito e poi partorito il Rosatellum nell'autunno scorso. E' l'opzione più cara a Berlino e Bruxelles, quella per cui spingono i potentati nazionali, e che lo stesso Buffone di Arcore preferirebbe alla faticosa coalizione con l'ambizioso Salvini.

Se anche questa coalizione non avesse i seggi necessari, ecco che spunterebbe l'opzione numero tre, un accordo M5S-Pd-LeU, un patto che potrebbe saldarsi solo con la rapida defenestrazione dell'attuale segretario piddino.

A mio parere non serve dunque strologare sulle formule magiche che piacciono tanto ai giornalisti, tipo quella del "governo del presidente", per non parlare dell'ipotesi lunare di una prorogatio sine die a pesce lesso Gentiloni. Le cose sono assai più semplici: o la destra ha i numeri, o ce l'ha l'arco parlamentare che (almeno ufficialmente) gli si contrappone. In mezzo c'è solo il famoso inciucio Pd-Forza Italia. Che poi non si capisce neppure perché chiamarlo inciucio, dato che è vero che i due contraenti fanno parte di due schieramenti formalmente contrapposti, ma la matrice euro-liberista è la stessa.

Sta di fatto che Berlusconi attacca M5S ma mai il Pd, ricambiato in questo da Renzi, che casomai (oltre ai Cinque Stelle) attacca Salvini. Pur se sempre sdegnosamente negato, l'inciucio tra queste due forze sistemiche già c'è, se ne sono resi conto anche i bambini. E le bambine. Tant'è che pure la Meloni piagnucola in un angolo contro i possibili e probabili tradimenti dello zio Berlusconi. 

Ed a proposito di zii, il problema è che ci sono pure le zie. Quella che si è autonominata "zia d'Italia", cioè la peggiore di tutte, la più-europeista Emma Bonino, sembrerebbe la candidata premier di Berlusconi nel caso l'accordo con il Pd (e cespugli vari) avesse successo. La notizia è stata diffusa ad arte dagli stessi berlusconiani, per chiarire da un lato che i tempi di un Pd a Palazzo Chigi sono ormai finiti, e dall'altro che lui vuole ingraziarsi fino in fondo l'oligarchia eurista. 

Manovre preliminari si registrano però anche sull'altro versante, quello dell'opzione numero tre. Certo, i dominanti vedono questa soluzione solo come l'ultima spiaggia, ma i Cinque Stelle sembrano crederci, attestandosi nel caso sul nome del primo ministro e chiamando "contratto sul programma" un accordo politico col Pd che ormai non è più un tabù. Sia chiaro, chi scrive ritiene quest'ultima un'esercitazione senza speranza, ma il tentativo pentastellato c'è e va segnalato.

Ovvio che sia l'opzione numero due che quella numero tre nascerebbero entrambe nel segno del "più Europa". Più problematico, da questo punto di vista, un governo della destra. Quest'ultimo avrebbe invece la sua caratteristica fondamentale nel turbo-liberismo (flat tax, privatizzazioni, eccetera) e nel securitarismo di matrice poliziesca. 

Cosa hanno in comune queste tre ipotesi? Essenzialmente due cose: che una è peggiore dell'altra, che nessuna di queste potrebbe davvero consolidarsi come governo di legislatura. E questa è in fondo l'unica buona notizia che possiamo dare.

Dopo le elezioni la pressione europea, più precisamente quella dell'asse (a trazione tedesca) Parigi-Berlino, diverrà asfissiante. L'ultimo episodio che ce lo conferma è la recente nomina di Luis de Guindos - ministro di quel governo Rajoy così fedele alla Merkel - alla vicepresidenza della Bce. E' questo un tassello, probabilmente decisivo, della strategia che mira a portare al posto di Draghi, nell'autunno 2019, il falco Jens Weidmann, attuale presidente della Bundesbank. Le conseguenze per l'Italia, insieme alle scelte che bollono in pentola sul ministro delle finanze europeo e sulla trasformazione del MES in una sorta di Fondo Monetario Europeo non saranno certo trascurabili.

Nessuna delle tre possibili coalizioni di governo è attrezzata a far fronte a questo passaggio. Tant'è che tutti - ma proprio tutti - hanno preferito una campagna elettorale basata su scandali e scandaletti, su promesse quasi più risibili di chi le propone, sull'esasperazione del tema migranti, su un antifascismo truccato assai. Tutto pur di non parlare della gabbia europea che opprime l'Italia, ed in primo luogo le classi popolari del nostro Paese.

Oggi, perfino la vignetta di Giannelli sul Corsera (vedi qui sotto) ridicolizza la 
strumentalità di questa riscoperta di un antifascismo a misura dei dominanti. Una vera pagliacciata, probabilmente insufficiente però a risollevare i consensi del Pd.

Sull'Europa, invece, si è assistito ad una specie di revival degli apologetici canti di moda negli anni ottanta/novanta del secolo scorso. Quasi questi dieci anni di crisi non ci avessero insegnato nulla. Il Pd è tornato a sbandierare gli "Stati Uniti d'Europa", Berlusconi è andato a Bruxelles a baciare i piedi a chi di dovere, Di Maio ha parlato dell'Europa come della "nostra casa". 

Non votare loro e i loro alleati è dunque il minimo che si possa fare. Ma per questo rimando alla posizione espressa da Programma 101.

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22.2.18

ALLARMI SON FASCISTI di Piemme

C'era da aspettarselo che il miserabile misfatto di Macerata innescasse una spirale di scontri tra neofascisti e antifascisti. Ecco dunque i pestaggi incrociati di Palermo e Perugia. Se essi occupano le prime pagine dei mass media non è un caso. 

Non c'è di mezzo solo la  compulsione ossessiva dei media per la cronaca nera (che com'è noto è uno stratagemma per aumentare vendite e ascolti). 

E' che il regime neoliberista, di cui i media mainstream rappresentano le falangi della sua egemonia ideologica, ha bisogno, tanto più alle porte delle elezioni, di inculcare nella testa dei cittadini la sensazione che fuori dal perimetro sistemico c'è il salto nel buio, nella fattispecie il timore degli estremismi, tanto più se opposti.

Lo si vide negli anni '70 quanto il mantra degli "opposti estremismi" fosse stato funzionale alla strategia della tensione e quindi di conservazione delle classi dominanti. Ma se allora si trattò di una tragedia, ora essa si ripete come farsa. Una farsa orchestrata dentro la quale, ahinoi, certa sinistra radicale ha deciso di far parte come protagonista, contribuendo così al depistaggio ideologico di massa.

E' vero che il liberismo agonizzante abbia in pancia, mutatis mutandis, il pericolo di una rinascita dei fascismi. Ed è quindi necessario che le forze democratiche e rivoluzionarie debbano stare in guardia. Ma fare qui e ora dell'antifascismo non solo un discorso ma una pratica prioritaria, come abbiamo provato a spiegare, è un enorme errore politico.

Sono forse le formazione neofasciste, oggi giorno, il nemico principale? No, non lo sono. Sono nemici secondari che dobbiamo contrastare sfidandoli sul terreno dell'egemonia politica, sociale e culturale; diventando noi i campioni della lotta contro il nemico principale, il sistema neoliberista, i suoi meccanismi ed i suo fantocci politici.

Invece, partecipando alla commedia dell'antifascismo, oggi come oggi, in assenza di una vera minaccia fascista, si rischia diventare funzionali al sistema neoliberista e globalista, di apparire come un'ala radicale delle élite liberali.

Il diritto all'autodifesa, in caso di aggressioni fasciste o di regime, è sacrosanto in ogni circostanza, ma non in ogni circostanza è legittimo —come invece postula un certo "antifascismo militante"— usare l'aggressione e l'attacco preventivo come pratica politica.

Non si deve abbracciare il pacifismo per capire che la violenza politica occorre maneggiarla con cura, che se usata nei modi sbagliati e nelle situazioni sbagliate è un fatale boomerang. La ragione mi pare  semplice: il passaggio dallo scontro verbale a quello fisico, in una situazione di pace sociale e di letargia delle masse, è un salto enorme, oserei dire qualitativo. Quindi una pratica politicamente suicida.

Mao Zedong, cito a memoria, mi pare disse: «La politica è guerra senza spargimento di sangue mentre la guerra è politica con spargimento di sangue». 

Chi oggi ritiene sia giusto, passare alla "politica con spargimento di sangue" è un imbecille o, peggio, un provocatore.




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20.2.18

EMBRACO: NON C'È PIÙ RELIGIONE ...


Quindi la multinazionale a stelle e strisce WHIRPOOL ha sbattuto la porta in faccia, non solo alle maestranze ma pure al governo. Chiusura dello stabilimento piemontese confermata,  497 licenziamenti in tronco, a causa della delocalizzazione in Slovacchia. 
Vicenda istruttiva assai, e sotto diversi profili.

E' anzitutto un classico esempio che più chiaro non si può di come funziona una grande azienda mulitinazionale: profitto prima di tutto, disprezzo per i lavoratori, totale indifferenza degli interessi nazionali, del bene comune, delle leggi del Paese. Per quanto riguarda l'Italia  è d'obbligo ricordare quanto recita la sua legge suprema. Recita l'Art.41 della Costituzione:
«L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». 
Cosa accade, per meglio dire, cosa dovrebbe accadere, a chi viola le leggi di uno Stato? Che lo Stato lo sanziona. Multinazionali comprese, anzi, esse anzitutto.
E invece che abbiamo? Che lo Stato, essendo nella disponibilità, non del popolo lavoratore, ma di una casta di politici ruffiani e servi del grande capitalismo globalizzato, non alza un dito. Peggio asseconda le multinazionali. 

Guardate questa faccia di bronzo del ministro Calenda. E' indignato perché gli americani l'han preso a pesci in faccia. E che ti fa? Ti dice che egli non contesta minimamente il diritto della multinazionale a spostare in Slovacchia lo stabilimento e la produzione e poi corre, pensate un po', dai suoi padroni di Bruxelles a chiedere il permesso per metterci una pezza, garantendo che non si tratterebbe di "aiuti di stato".

Tutto come nel copione. 

Ma gli operai che ti fanno? Sperano in Calenda, fanno affidamento su una casta di servi politici che in nome del libero mercato e della globalizzazione ha consentito il più grande saccheggio privatistico del Paese. Chiedono l'elemosina andando ancora dietro a sindacati che a loro volta, nei decenni e non da ora, hanno avallato ogni sorta di rapina ai danni della classe operaia e della nazione. 

Non vi viene in mente, cari operai, di prendere in mano la fabbrica? Non vi passa per la testa di occuparla, ma non in segno protesta, no, bensì per autogestirla e farla funzionare assieme a tecnici, manager e impiegati che o verranno lasciati a spasso o dovranno emigrare... in Slovacchia, sguatteri anch'essi della multinazionale? Dovrebbero quindi, le maestranze, esigere la nazionalizzazione (si proprio l'esproprio) della fabbrica di Riva di Chieri, assicurandosi che lo Stato aiuti l'azienda autogestita e nazionalizzata in quanto a sbocchi di mercato e  sinergie con altri settori industriali.

Autogestione + nazionalizzazione, questa è l'unica soluzione, non solo per difendere il diritto al lavoro, ma perché quel che essa produce serve alla collettività, è quindi fabbrica di interesse nazionale, e ciò che è di interesse nazionale lo Stato ha l'obbligo di tutelare.

Siccome non c'è più una coscienza di classe tra i lavoratori, meno che meno c'è contezza dell'interesse generale e amor patrio in seno alla classe dominante ed ai suoi fantocci politici, il Paese va in malora, procede verso il baratro.

Cosa mai dovrà accadere per invertire questa rotta?


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14.2.18

LE RADICI DEL NOSTRO PATRIOTTISMO

«La repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana».

Così recita il preambolo della Costituzione della Repubblica Romana, nata con la rivolta popolare del 9 febbraio 1849. Fu il canto del cigno della rivoluzione europea del 1848, schiacciata infatti dall'esercito francese di Napoleone III, giunto in soccorso del Papato.


Tengano a mente queste parole certi sinistrati senza memoria storica che equiparano il patriottismo al nazionalismo xenofobo e fascistoide. Rivendichiamo questo patriottismo internazionalista e repubblicano che fu alla base del "Risorgimento caldo" come una delle fonti spirituali a cui ci abbeveriamo. A maggior ragione lo rivendichiamo poiché esso venne seppellito da quello "freddo", quello borghese e monarchico, che userà la vanagloria nazionalista per soggiogare il popolo (quello del Mezzogiorno col ferro e col fuoco) e giustificare le sue sanguinarie imprese coloniali.
Alla memoria dei martiri della Repubblica Romana vogliamo dedicare questa magistrale interpretazione di Nino Manfredi nel film IN NOME DEL POPOLO SOVRANO.

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